Isola del Giglio
Lungo i sentieri che attraversano il Giglio si trovano delle piccole costruzioni in pietra, il più delle volte nascoste dalla vegetazione ed in posti inaccessibili, comunque panoramici, sempre vicine a terrazze dove c'erano o vi sono delle vigne. Sono i caratteristici palmenti, utilizzati per la vinificazione quando nell'isola si producevano grandi quantità di uva ed era difficile e laborioso il trasporto altrove. Sostituivano, nei fatti, tini, vasche e botti.
Circa duecento in tutta l'isola alcuni di origine preistorica,in gran parte costituiti da una sola vasca su liscioni in forte pendenza, altri di origine etrusco-romana con una serie di vasche allineate e scavate nella roccia granitica. L'uva veniva portata sulla piazzola antistante l'edificio e da qui, attraverso le finestre laterali, gettata dentro la vasca dell'edicola, dove a turno i gigliesi erano impegnati a pigiare i grappoli. Il mosto veniva raccolto con un "chiozzolo", una zucca vuotata e seccata, e versato nell'edicola con le vinacce dove fermentava per altri due giorni. Dall'edicola passava agli otri di capra e trasportato nelle cantine.
L'Ansonica si presenta, oggi come allora, con la caratteristica coltivazione ad alberello basso con due o tre speroni, appoggiata a canne fitte poste con una architettura che si tramanda di padre in figlio. Le viti non si lasciano alzare più che a "mezz'uomo" per poterle lavorare meglio: ciò consente altresì la produzione di bei grappoli, ricchi di zucchero e dalla buccia spessa per resistere alle malattie e alle avversità climatiche.
Un tempo l'intera isola era coltivata a vigneto destinato ad uva da tavola e da vino; vi si produceva anche uva Ansonica da "passola", cioè Ansonica per vino dolce, liquoroso naturale, il tutto ad uso familiare. La difesa delle storiche viti del Giglio, delle "greppe" terrazzate con gli artistici cannicci, dei muri a secco, dei capannelli per il ricovero degli attrezzi e per la vinificazione, delle cantine storiche scavate a Giglio Castello sono una testimonianza storica dal valore incalcolabile e non possono essere lasciate al solo amore dei pochi ultimi vignaioli.
Occorre pensare che nel 1800 la popolazione, prevalentemente concentrata a Giglio Castello, contava circa 1400 abitanti, produceva un' elevata quantità di vino, poco oltre i 6.000 hl, di cui circa la metà, sotto forma di barili gigliesi, veniva esportata nello Stato della Chiesa, mentre il resto era riservato al consumo interno e chiamato familiarmente "mezzavino". Oggi la produzione si stima non superi i 650 hl, per una superficie residuale di circa venti ettari. I vignaioli che nel tempo libero coltivano ancora con passione fazzoletti di terra, le "greppe" in zone quasi inaccessibili, sono circa ottanta, di cui solo cinque o sei si dedicano esclusivamente alla coltura della propria vigna avendo appezzamenti leggermente più ampi.
Isola d'Elba
L'Isola d'Elba, conosciuta anche come isola del ferro, non è mai stata un'isola qualunque, nemmeno nell'antichità: una storia dalle alterne vicissitudini l'ha vista spesso protagonista, sia per la sua posizione di vedetta del Mediterraneo, sia per le sue notevoli risorse minerarie. Celeberrimo il soggiorno, nel 1814-15, di Napoleone Bonaparte, in esilio a Portoferraio. Strana isola, l'Elba: la costa movimentata da golfi, insenature, strapiombi, spiaggette, blocchi granitici, l'entroterra prevalentemente montuoso, ricco di boschi ma anche brullo, sassoso, nudo, dolce e impervio insieme. Terza italiana per grandezza e prima dell'arcipelago toscano, con i suoi 147 chilometri di coste da sempre ammalia il turista, occasionale o abituale che sia.
Coste frastagliate o inaccessibili, di fine rena granitica o ciottolose, aspre o vellutate: non si sa se è un fatto puramente emozionale o una dimensione dell'anima, ma la voglia di isola spinge sempre più persone a tornarci sistematicamente. L'isola d'Elba si caratterizza per una variegata orografia che comporta una grande varietà di climi, da cui deriva la presenza di svariate specie vegetali. Boschi e macchia mediterranea allignano rigogliosi un po' ovunque, nutriti da quell'aria fine mossa dal vento. Sul versante sud è il rigoglìo della macchia con le essenze, gli aromi, i colori del mirto, del lentisco, della lavanda, dell'elicriso. Sul lato nord è presente il bosco ceduo collinare, mentre sul monte Capanne affondano le radici secolari castagni, pini, sughere e lecci.
Vicino alle spiagge gigli marini, papaveri delle sabbie, violacciocche di mare, finocchietto selvatico. Andando per sentieri è tutto uno scoprire corbezzoli, erica e ginestre. Le sinfonie di colori offerte dal rosso aranciato del giglio di San Giovanni, il giallo dei tulipani selvatici, i numerosi tipi di orchidee. Un'isola "feconda" di vino, come la descrisse Plinio, e come testimoniano i ritrovamenti di anfore vinarie sui fondali marini. Un angolo di paradiso in cui si abita in vecchi casali immersi nelle vigne, con garanzia di assoluta quiete e vista sul mare.
Qui l'Ansonica è di casa, come vitigno tipicamente mediterraneo originario anticamente della Sicilia, diffusosi in seguito sulle coste calabresi, e nella zona dell'Argentiario, in Toscana, in particolare sull'Elba e sull'Isola del Giglio. Dall'iconografia greca veniamo a sapere che l'Ansonica veniva denominata in vario modo, ma tutte le definizioni e i nomignoli (vedi "ansolia", "nsolia" o "inzolia") derivavano dalla medesima radice significante "uva bianca dolce ad acini bislunghi".
Uva particolarmente ricca di zuccheri, proveniente da vitigni che prediligono il clima dominato dalle alte temperature e mitigato dalla presenza quasi costante della brezza, con autunni e inverni assai tiepidi, primavere soleggiate e estati assai calde.
La produzione di Ansonica ha mantenuto da sempre l'antica tradizione sicula. Negli ultimi anni, nel rispetto delle caratteristicità dei sistemi di produzione classici, sono state introdotte nuove tecniche all'interno delle vigne e si è provveduto alla modernizzazione delle cantine. Con l'obiettivo, perseguito tutt'oggi con energie sempre nuove, di ottimizzare la qualità produttiva.
Isola d'Ischia
Ai più è conosciuta come "isola verde del Mediterraneo" per la ricchezza della sua vegetazione ed una flora spontanea che farebbe invidia a qualsivoglia libro di botanica, ad altri per essere un importante centro termale, ad altri ancora per la bellezza del paesaggio reso inconfondibile dai grossi massi di tufo verde, una pietra d'origine vulcanica.
Eppure Ischia ha una storia millenaria per la sua origine vitivinicola giunta sino a noi grazie alla laboriosità di appassionati imprenditori. L'origine della vite è testimoniata da un oggetto eccezionale: la Coppa di Nestore datata 757 a.C. e scoperta dal noto archeologo Giorgio Buchner negli anni 50' nei pressi del Monte Vico.
Una coppa che oltre alla sua bellezza e ad essere testimone della presenza della vite portata dai Greci, porta scritto in versi la capacità del vino una volta bevuto di "esser portati a desiderare la bionda Afrodite". Una viticoltura particolarissima, sia per l'orografia del terreno, che per certi versi la rendono "eroica", che per la sua altitudine, quanto per la peculiarità dei suoi terrazzamenti detti "parracine". Ovvero chilometri di muri a secco per sostenere terrazze di tufo, che servono a rendere coltivabile con molta fatica la vite in zone scogliose. In alcuni punti dell'isola come in loc. Frassitelli a circa 600 m.s.l. è possibile raccogliere l'uva con un piccolo trenino con monorotaia a cremagliera; altrimenti impensabili le normali operazioni colturali stante la forte pendenza. Un lavoro ingrato che il contadino ischitano ha sempre svolto con passione e molto spesso fuori d'ogni regola economica.
Un'isola vitata da secoli, che nei primi anni '50 ha raggiunto anche i 250.000 hl di vino prodotto, sino ad esser molto più contenuta in questo ventennio. Ai tempi dei romani fu chiamata anche "Aenaria", terra del vino; la leggenda racconta anche perché vi si rifugiò l'eroe troiano Enea. Il particolare terreno di medio impasto, raramente argilloso, ed il clima temperato caldo-asciutto, hanno favorito una viticoltura autoctona ed una forma d'allevamento di viti basse dette "a carraturu" create per sfruttare il calore del suolo. I vini prodotti in gran parte si riconducono alla denominazione Ischia, tra le prime riconosciute in Italia e poi qualificatesi con l'utilizzo di vitigni locali in via esclusiva. L'uva Biancolella in loco chiamata "ianculillo" dal grappolo color oro giallo paglierino si propone in purezza oppure con altre uve Forestera a produrre l'Ischia bianco. L'origine del nome "Forestera", fortemente resistente alle malattie, si pensa derivi dalla provenienza esterna della stessa rispetto all'isola.
La qualificazione superiore può esser utilizzata quando l'Ischia DOC raggiunge una gradazione di 11,5 gradi. Con una resa di cento qt. per ettaro. Altro vino importante che partecipa con il Guarnaccia a produrre la tipologia rosso è il Piedirosso detto localmente "per a palumme", per l'estrema somiglianza dei suoi raspi con il colore e la forma delle zampe dei colombi. Queste uve partecipano anche a farne un vino da monovitigno inconfondibile. Un itinerario enoturistico dell'isola, oltre a evidenziare la peculiarità dei terrazzamenti, le bellezze quali la baia di S. Montano, Lacco Ameno e lo scoglio a forma di fungo o il vecchio Castello Aragonese d'Ischia Ponte, suggerisce la possibilità di visitare le cantine, alcune anche storiche come quelle di Barano e di Serrara Fontana, o anche altre più moderne, che hanno conservato la filosofia produttiva ed i caratteri originali dei vitigni isolani preminenti nell'isola.
Molte cantine sono visitabili su prenotazione e non è da mancare la visita di un Museo contadino in loc. Panza a Forio d'Ischia, dov'è possibile ripercorrere per la varietà degli oggetti conservati e l'ottima iconografia dei testi e delle immagini cos'è stata l'evoluzione della vite ad Ischia. Da non perdere altresì la visita del Museo archeologico. Molte le produzioni artigianali quali cesti e oggetti fatti a mano, tra cui spiccano alcune produzioni tipiche. Particolarmente curato dai ristori dell'isola il matrimonio ideale di piatti con i vini locali. Al Biancolella sono abbinate paste ai sughi di mare, pesce nobile e crostacei. Al Piedirosso il coniglio all'ischitana o alici fritte del golfo; non è possibile poi andar via senza aver degustato una zuppa " impepata di cozze".
Isola di Sant'Antioco
Piove pochissimo a Sant'Antioco: solo 400 millimetri di pioggia annua. Il suolo è arido e il clima rigorosamente secco. L'isola nell'isola di Sardegna. C'è nell'aria il profumo del mirto, delle bacche selvatiche, della macchia mediterranea. Nella sua terra il colore della ginestra a ridosso delle spiagge e delle impervie vie di comunicazione. Nella costa frastagliata tutta la dialettica fra il mare di un turchese nitido e caldo e la terra arsa dal sole, la vegetazione quasi completamente assente. Al largo gli isolotti La Vacca, il Vitello e il Toro.
E' il fascino dell'isola più nascosta d'Italia, collegata alla terraferma da un istmo artificiale lungo cinque chilometri, lungo il quale si scorgono ancora le rovine dell'antico impero romano sullo sfondo delle saline con i fenicotteri rosa, la più grande dell'arcipelago sulcitano. Da pochi conosciuta e raggiunta, di solito risulta oggetto delle attenzioni degli amanti di una Sardegna cosiddetta "minore", non per bellezza o per qualità dell'accoglienza, ma minore per la lontananza rispetto alle località turistiche sotto i riflettori del turismo trend. Raggiungibile da Cagliari attraversando le splendide sinuosità della costa e toccando la straordinariamente bella Chia, Sant'Antioco risulta lontana dalle principali arterie di comunicazione e così non gode, o non soffre - a seconda dei punti di vista - della presenza di un turismo massificato.
Da sud occorre percorrerla tutta per giungere al caratteristico borgo di Calasetta (sede della omonima cantina sociale), il punto di collegamento con la più piccola delle due isole sarde - sorelle per vicinanza geografica ma non solo, per formazione culturale - che è l'isola di San Pietro. Anch'essa sostenuta ancora dal turismo balneare, ma alla ribalta dei riflettori negli ultimi tempi grazie all'ottimo vino a denominazione di origine. In queste isole, così a sud, la cultura della vitivinicoltura non è stata dimenticata, tutt'altro. Ha un passato fatto di costanza e dedizione. Le vigne sono fazzoletti di terra strappate con tenacia ad un terreno di pietre calcaree. Le piante allevate ad alberello basso. Una terra unica nel suo genere, per l'ambiente e il particolarissimo modo "disciplinato" di mantenere in vita nei secoli la coltura della vigna.
Con un vino in straordinaria accellerazione qualitativa. A Calasetta si produce il noto Carignano del Sulcis. Autore l'enologo Giacomo Tachis: "Il Carignano è un vino eccezionale perché la pianta dalla quale deriva ha sofferto la sete, il caldo, il vento e forse anche un po' di fame. Emile Peynaud, autore di alcuni testi sacri della scienza enologica, ha sostenuto che la pianta che soffre leggermente dà sempre un vino migliore. Il Carignano è un vino dalla bassa acidità e dal ph molto elevato, ricco di tannini nobili dolci, rotondi, garbati. Si potrebbe quasi dire che è il vino a nobilitare la barrique, anziché viceversa. Vino generoso nel grado alcolico, riuscendo persino a toccare la soglia di 14°. Quando mediamente il suo tenore di alcol oscilla tra i 13° e i 13.5°. Per poi invecchiare lentamente e dolcemente come i grandi saggi".
Isola di Pantelleria
Èstata di sicuro una felice intuizione da parte della Regione Sicilia quella di promuovere le rotte del mare, oltre alle Strade del Vino. Infatti per la prima volta una legge regionale individua gli itinerari enoturistici oltre che sulla terra ferma anche come contiguità con le isole limitrofe. Un modo come un altro per valorizzare appieno oltre il prestigio dei vini siciliani anche la realtà delle isole "minori" (come questa "perla nera", isola di favare e di mofete) e le tracce dell'origine vulcanica ormai sopita. Isola dei pozzi e dei buviri, particolari sorgenti d'acqua salmastra, testimonianze preistoriche di vita e capacità abitativa neolitica.
Come ci testimoniano ancora oggi i sesi, i ruderi delle originarie abitazioni. "Bent el Riah" ovvero la "figlia del vento", collocata proprio nel centro del Mediterraneo, quasi equidistante dalle coste siciliane e da Tunisi, ha subito nei secoli svariate dominazioni e culture dovute alla sua posizione nettamente strategica. Una terra che ha raccolto in sé, nelle architetture rurali, nelle produzioni e nella gastronomia quanto i Fenici, i Cartaginesi, i Romani e gli Arabi sono stati in grado di trasferire. Un'isola vulcanica che in primavera esprime con i colori del giallo delle ginestre, del rosso del "corallo di terra" e il verde di una fitta vegetazione, quanto di più policromo e profumato possa attendersi.
Con gli itinerari e il trekking che giungono alla gran montagna (836 metri s.l.m.) oppure con le soste sulle rive del lago, "lo specchio di Venere", la cui leggenda vuole la stessa Dea della Bellezza specchiarsi nelle acque di questo lago oggi adibito a cure termali. O dirigendosi lungo i sentieri che attraversano i piani della Ghirlanda e del Monastero, costeggiando grotte naturali (stufe) caratteristiche per l'emissione d'aria calda. Camminando fra dammusi, le uniche e originali costruzioni in pietra che si riconducono ai primi insediamenti umani, oltre 1500 anni prima di Cristo. Strutture originalissime in pietra lavica di quadrato o rettangolare, costruite in difesa dai raggi solari e dalle piogge, alquanto rare comunque. Le piccole perle d'architettura costituite da grosse pietre smussate e impilate una sull'altra sino a giungere alla forma conica dell'ultima pietra. Qui il ruolo d'ambasciatori spetta al Passito ed al Moscato di Pantelleria, produzioni che pervengono a noi dopo un'accorta essiccazione e lavorazione delle uve zibibbo dopo giorni d'esposizione al sole, essiccati su cannicci e stuoie.
Durante l'appassimento non è raro sentire tra i filari un sottile profumo di muschio. Occorrono circa 15/20 giorni per ottenere la cosiddetta "malaga", ovvero l'uva passa che viene utilizzata poi negli stessi prodotti dolciari. Una resa estremamente ridotta fa del Passito di Pantelleria, anche per il suo color oro, uno dei vini pregiati del paese. Tachis scrive che il Passito è un vero nettare degli Dei che migliora quando "perde i denti e il suo capo diventa calvo". In alcune opere dell'antichità si accenna già al protocollo della produzione di questo vino: dalla disidratazione dell'acino nella sua migliore espressione fisiologica, biochimica e organoilettica, alla fase fermentativa e post-fermentativa e all'invecchiamento del prodotto. E disidratare l'uva, nei tempi antichi, non soltanto significava esporla al sole nelle regioni più calde, dove il clima consentiva questo processo, ma significava anche ricorrere all'aria ventilata.
Punta di diamante "minore" sul piano produttivo ma non per questo meno importante è la coltivazione dei capperi, garantiti oggi dal riconoscimento dell'indicazione geografica protetta. E le lenticchie pantesche. Non è un caso che proprio qui, sull'isola, siano proprio i capperi - in particolare quelli piccoli - a conferire un aroma ed un sapore distintivo a gran parte delle pietanze. Crescono spontanei sulle scogliere, aggrappandosi alle rocce che riescono a mantenere umide le radici, nei periodi di maggior siccità. I contadini panteschi raccolgono capperi (cetrioli) da Maggio ad Agosto per poi conservarli in salamoia e poi sotto sale.
Iole Piscolla scrive da anni di turismo ed enogastronomia. E’ un tecnico di Strade del vino e da tre anni dirige il Centro Studi e Servizi alle...
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