“Terroir”, una parola forse abusata e incompresa. Questo racconto ne spiega il vero significato.
Arrivò dai confini del Cosmo dopo un viaggio senza tempo e ammirò, dalla vetrata di prua, il pianeta che splendeva di mille colori. Ne era valsa la pena. Scese al suolo con un’emozione che gli ricordava gli anni remoti dell’infanzia. Mai, però, aveva visto una natura così ricca e meravigliosa. Piante, fiori, animali di ogni forma e dimensione. Era proprio come nel sogno che lo aveva cullato nei lunghi momenti di riposo.
Aveva vagato per nebulose infinite e sottili come drappi di seta. Aveva attraversato buchi neri e subito la violenza dell’Universo più selvaggio. Aveva visto esplodere stelle con urla silenziose di materia e ne aveva visto nascere altre intuendo i loro taciti vagiti. Aveva sorvolato pianeti giganteschi il cui gas formava arabeschi intricati e altri ruvidi e spigolosi come il puro metallo. Aveva conosciuto forme di vita a lui aliene che vagabondavano tra foreste e montagne incantate, ma anche creature che volavano tra nubi argentate o nuotavano tra flutti impetuosi. Aveva toccato suoli morbidi e lastre di pietra dure come il diamante. Aveva raccolto frutta ed estratto radici dai sapori ammalianti o infami. Si era dissetato in ruscelli trasparenti come il cristallo o densi come il fango.
Poteva dire di aver conosciuto il Cosmo, di averlo vissuto e di averlo assaporato con tutti i sensi. Il sogno, però, restava sempre lo stesso e lui sapeva di non aver ancora trovato ciò che cercava. Ora forse era giunto alla meta. Mosse i primi passi tra una vegetazione rigogliosa, mentre insetti variopinti gli indicavano il cammino con i loro allegri balzi. Uccelli di ogni tinta venivano trascinati dal vento e le fronde degli alti alberi sembravano ripetere il gesto e insegnargli la danza. Il terreno era soffice e l’orizzonte si vestiva di colline sinuose e di picchi innevati.
Vide rocce tormentate e violentate dagli elementi, pianure sconfinate e verdeggianti, foreste impenetrabili anche ai raggi della stella che illuminava il pianeta, fiumi che ribollivano di schiuma o placidi come vetrate trasparenti di smeraldo. Ammirò oceani immensi e vulcani infuriati che coprivano di fuoco il terreno circostante. Si abbeverò alle fonti di acqua purissima e addentò con bramosia la frutta che pendeva dai rami o nasceva dal suolo. Il suo essere più profondo ne fu estasiato, ma capì che quel pianeta poteva offrire di più.
Lo percorse più volte, sentendo il calore torrido dell’equatore e il freddo pungente dei ghiacci polari. Pensò a lungo, ma non riuscì a trovare la soluzione. Eppure la sua sapienza era vasta come la Natura stessa. Quel pianeta poteva e doveva dargli di più. Ne era sicuro perché il suo sogno non era cambiato. Sapeva di aver raggiunto il luogo, ma non sapeva ancora estrarne l’essenza. Decise di cibarsi della stessa terra. Mangiò la sabbia dei mari, le schegge dei vulcani, il fango delle pozze, la ghiaia dei fiumi. Si volse verso l’alto e ingoiò il vento che portava con sé i profumi di luoghi lontani e si dissetò con la pioggia e la neve. Strappò arbusti e bacche e ne fece poltiglia. Scavò buche profonde per sentire gli aromi nascosti nelle viscere del suolo. Alla fine comprese il segreto che si celava in quel luogo e il suo sogno sembrò terminare.
Non erano le singole cose a creare l’unicità di quel pianeta, ma l’insieme dei suoi frutti. Solo così ci si poteva beare della sua essenza incantata. Mischiò terra, fango, pietre, vento, pioggia, acqua di mare e di fiume, foglie, frutta, radici ed estinse la sua fame di conoscenza. Quella poltiglia dai mille sapori e dai mille colori era ciò che aveva sempre cercato? Sicuramente assomigliava molto al suo sogno. Mancava però qualcosa di ancora più profondo. Lui aveva manipolato e fuso insieme le singole meraviglie, ne aveva fatto una mistura completa, ma era un abbozzo, una riproduzione fittizia, un’imitazione senza vita. Ora che aveva intuito la soluzione non poteva più fermarsi.
Scavò nella sua memoria come mai aveva fatto prima, rammentò ogni singolo atto dell’Universo, riprodusse la potenza e la delicatezza della Natura, raccolse le forze del Cosmo e le concentrò in un unico punto di terra, di fuoco, di acqua e di aria. La poltiglia di prima acquistò una forma precisa e sembrò prendere vita. Stremato e felice sollevò verso il cielo un semplice, umile e anonimo seme. Con la tenerezza di una madre lo sistemò in una buca scavata a mani nude nel suolo. Lo coprì con una coperta di terra e lo bagnò con le sue lacrime.
Senza voltarsi raggiunse la nave e riprese il viaggio verso l’infinito. Con la smania e la frenesia di un bambino, la piccola pianta uscì in breve a respirare l’aria tersa di quel pianeta di sogno. Dalle foreste più intricate, apparvero creature timide e impaurite. Forti come la pietra nel fisico, ma deboli e ingenue nella mente ancora in fasce, si avvicinarono a quella pianta ormai rigogliosa e ne raccolsero i grappoli. Le mani li schiacciarono con bramosia e le bocche ne assaporarono il succo. Sentirono tutto il loro mondo in quelle piccole gocce e seppero che non le avrebbero mai abbandonate.
I loro occhi cercarono inconsciamente nel cielo una visione che non potevano scorgere, una nave e uno spirito che dormiva ormai senza sogni: lo spirito del vino.
Astrofisico per 40 anni, ho da sempre coltivato la passione per il vino e per il mondo che lo circonda. Vedo di traverso la seriosità che...
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