Le Langhe. Un balcone verso le Alpi. Per me, che fin da bambino venivo con mio padre da Savona per vedere le creste innevate che andavano dal Monviso fino al Monte Rosa, il punto chiave era Montezemolo. Lì si sarebbe capito se il cielo voleva permettere al sogno di avverarsi oppure se dovevo solo immaginarmi il panorama. Montezemolo era una specie di muro, che bisognava valicare per scoprire il mondo dei giganti. Lo amavo e lo odiavo profondamente. E da Montezemolo cominciavano a distendersi le Langhe, come un tappeto increspato che mi portava verso la barriera montuosa. Era un momento di tensione che poteva sfociare in gioia o dolore.
Passarono gli anni ma le cose non cambiarono molto. Ogni volta che tornavo dal mare a Torino per frequentare l’Università, Montezemolo rimaneva il muro da superare, che mi avrebbe impietosamente svelato la sua decisione. Non era più la tristezza o la gioia del bambino, ma rimaneva comunque il punto focale del breve viaggio. E quando il suo responso era favorevole ed io non avevo fretta (una volta anche i giovani potevano non avere fretta) lasciavo la statale per Ceva e giravo a destra lungo le creste strette che indicavano la direzione dei monti. Murazzano, Serravalle o Bossolasco indicavano il cammino e poi giù in discesa verso i ricchi terreni del più grande dei vitigni.
E nuovamente un senso di amore e rabbia. Amore per quella solitudine, per quei campi, per quei boschi e quella pietra stupenda. Rabbia perché i villaggi non erano riusciti a preservarsi intatti e severi come nelle colline toscane. Me li immaginavo arroccati ai vecchi castelli, in simbiosi con la roccia, e invece troppe anonime cascine e nuove costruzioni li sparpagliavano nel nulla. Singole torri, qualche muro, troppo poco per far ricordare. Poi un guizzo improvviso che era sempre emozione: Serralunga. Intorno ad uno dei più armoniosi castelli d’Italia si raggruppava ancora l’ellisse delle sue casette. Avevano perso lo smalto vetusto, ma imponevano ancora il loro antico carattere.
Dopo, nuovamente delusione: manieri rifatti, torrioni neogotici mi accompagnavano verso l’orribile castello di Pollenzo, tra capannoni e paesi anonimi. L’antica e importante città romana faceva di tutto per nascondere la sua forma ad anfiteatro, che avrebbe potuto ricordare l’illustre passato. Oppure scendevo ad Alba e pensavo a come sarebbe potuta apparire se si fosse trovata in un’altra regione o in un’altra nazione. Le sue rosse torri, il Duomo e le altre chiese non riuscivano a legare tra loro. La ricchezza di quei posti non amava il turismo artistico, ma solo quello nascente del cibo e del vino. Di nuovo amore e rabbia.
Passarono gli anni, le Langhe divennero praticamente la mia casa. Non avevano più segreti e le volli rileggere fin dalla loro nascita. Le prime a uscire dal mare quindici milioni di anni fa e le prime ad ammirare la catena alpina. In qualche modo mi ricordavano la giovinezza, quando superavo Montezemolo e mi affacciavo al balcone naturale in trepida attesa. La loro storia geologica me le fece sentire più vicine: la rabbia si smorzò e l’amore crebbe.
Oggi torno spesso a Serralunga sia per il castello sia perché posso ammirare perfettamente le tre creste che identificano altrettanti periodi geologici successivi: quello più vecchio della stessa Serralunga, quello intermedio di Monforte e Castiglione Falletto e infine, nello sfondo, quello più giovane di Novello, Barolo, la Morra, Verduno, ultimo baluardo verso la pianura del Tanaro. Più lontano, l’impervio Roero, fratello giovanissimo ma ribelle. E immagino ancora la spettacolare cascata che il nuovo Tanaro formò cambiando il suo corso. Le Rocche sono ancora lì come un fossile di quel drammatico momento. Il Roero, bellissimo, ma ancora più sconosciuto e incompreso. Ancora in attesa che qualcuno guardi al di là del proprio naso e si accorga della sua bellezza selvaggia e del suo valore storico (chi mai ha cercato di recuperare la strada romana che attraversava le sue colline?). Il Roero in continua smania di emulazione dei suoi fratelli più vecchi che lo guardano dall’altra parte.
Un po’ di antica rabbia torna e penso nuovamente a come in altri paesi europei e non solo, sarebbero stati sfruttati tesori del genere. Ma poi torno a guardare il suolo e penso alla fortuna di quel terreno. Uscito dalle acque come Venere, le sue sabbie indurite dal Sole e dal vento, rigate dalla pioggia e modellate dai torrenti, si sono preservate con la stessa asprezza attraverso i millenni. E le radici delle vecchie vigne continuano a lottare con quella pietra antica. E da quella lotta titanica nascono grappoli sofferenti, stanchi e sapienti, il cui nettare deve per forza essere il più grande. E allora l’amore torna a primeggiare e anche i castelli mi sembrano più genuini e le case meno sgraziate. Faccio anche finta di non vedere i capannoni e le case blu di Alba e ritorno lentamente verso la pianura. Mi fermo sovente, accolto da amici sinceri, che al pari delle loro vigne sanno lottare con durezza e nascondere i veri sentimenti. Ma quando aprono il cuore e versano il nettare sopraffino nel bicchiere, i profumi di quella terra escono prepotenti e senza più misteri. Anche il loro volto si rasserena e si apre. E allora capisci che quelle sono colline uniche e che non si può avere tutto. Mancheranno i borghi toscani e le loro chiese romaniche, ma e lì che si crea il nebbiolo, una sintesi perfetta tra terreno, clima e uomo, e allora te lo lasci scivolare in gola con tanto amore, a occhi chiusi, ma con la catena alpina impressa nella mente. E torni bambino.
Astrofisico per 40 anni, ho da sempre coltivato la passione per il vino e per il mondo che lo circonda. Vedo di traverso la seriosità che...
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