In questi giorni di lutto per il capoluogo d’Abruzzo, di dolore per tutta la regione e di sconforto per l’intera nazione vorrei contribuire a dare a tutti un motivo di speranza con questo ricordo di una antica festa abruzzese, la Panarda, simbolo di amicizia, di convivialità ma anche di compassione.
Il punto clou del Press Tour “A tavola con l’Abruzzo” organizzato da B2B Abruzzo dal 21 al 25 Maggio 2008 era la Panarda. Non sapevo nulla di cosa si nascondesse dietro questo strano nome. Avevo chiesto a Maria Teresa, la nostra amica originaria di Pescara, ma neppure lei ne sapeva nulla. Non restava che accettare l’invito e andare a vedere di persona. Si parlava di un pranzo interminabile, con tantissimi piatti abruzzesi che si alternavano per la gioia di un gruppo nutrito di commensali radunati attorno a un tavolo. Si parlava di riti sacrali attorno a questo pranzo.
In realtà la Panarda è molto di più. È una festa dell’amicizia, un peana alla convivialità, un collante sociale di una potenza indescrivibile, un momento indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di partecipare. Il cibo è un banale pretesto, ma è quello che rende perfetto ogni particolare. È come il sale per una pietanza. Se non c’è è senza sapore, se ce n’è troppo diventa amara e immangiabile. Deve essercene la giusta quantità e messo nei posti giusti e nei momenti giusti. Diciamo che il cibo è il sale della festa della Panarda e va calibrato attentamente nei tempi e nei modi. Come diceva il Manzoni “con juicio”.
Vedi anche Gli eroi d'Abruzzo e la Panarda
Sabato 24 Maggio 2008
La Panarda – Avvio.
Alle tre meno un quarto siamo arrivati al ristorante La Lanterna di Villanova di Cepagatti, per il rito della Panarda. Il nome del paese sembra di etimologia incerta, ma comunque latina, o da pagus captus, campo catturato, oppure da cis pagus teatis, oltre il territorio di Chieti, oppure ancora da pagatus, riferito alla gabella che si pagava per transitare dalla porta Pellina del castello longobardo.
La sala è ampia, ha le dimensioni di una palestra.
Mezza sala è dedicata al tavolone con 54 posti già apparecchiati.
L’altra mezza sala è occupata da tre tavoli rotondi sui quali troneggia una fiera di affettati, una composizione di formaggi e varie “corone” di frutti stagionali freschi e profumati, ai quali si andranno ad aggiungere alla fine stuoli di cioccolatini prelibatissimi.
I posti sono prestabiliti. Vado alla ricerca del mio. Il cartellino con il mio nome sta tra quello di Franca Dell’Arciprete Scotti, alla mia sinistra, e quello di Paola Lupi, alla mia destra.
È tutto un girare affannoso degli invitati attorno al grande tavolo in cerca del proprio posto.
Lascio la mia borsa come segna posto e faccio un giro nel prato esterno per godermi il panorama e l’aria ancora fresca nonostante il sole che brilla da metà mattina. Al ritorno la mia borsa segna posto è sparita. L’ha presa per sbaglio il simpatico John Sheridan, lo scozzese rubizzo, scambiandola per la sua che era tre posti più a sinistra, dopo uno scambio di posti richiesto da lui per avvicinarsi al gruppo egli inglesi, perché lui non mastica una parola di italiano.
Ci sediamo e il Gran Cerimoniere Mimmo D’Alessio, delegato regionale dell'Accademia della Cucina ci spiega l’essenza della Panarda. È un rito gastronomico religioso che risale al medioevo quando, alla fine dell’inverno e con l’arrivo della buona stagione, i signori ricchi davano fondo alle riserve invernali rimaste non consumate invitando gli abitanti del paese più indigenti a questo consumo rituale. È quindi un rito dell’abbondanza a cui partecipavano quasi sempre persone che in genere soffrivano la fame e in questo senso può apparire come una contraddizione. Potremmo adottare una storpiatura di un noto proverbio latino per descrivere questa incoerenza: “semel in anno licet – panardare”.
Già allora i poveri che non avevano dimestichezza con la lingua dei signori attribuivano questa loro inferiorità al fatto che i signori, poiché potevano mangiare tutti i giorni, avevano la possibilità di “parlare cibato”.
Nel corso degli anni e dei secoli divenne un rito virile e si usava per festeggiare grandi avvenimenti familiari, come la partenza per il militare, o una promozione in carriera, o altre circostanze simili.
In realtà è un rito che serve a far nascere o a rinforzare amicizie. Del resto si dice, per mantenere le distanze con chi non ci sta troppo simpatico, “Ma noi due quando mai abbiamo mangiato insieme?”
Poi Mimmo comincia a descrivere gli aspetti più tecnici della Panarda. È regola che non ci si debba allontanare dalla tavola se non alla fine della cerimonia. Sono ammesse un paio di soste regolamentate nei modi e nei tempi dal banditore di Panarda. Mimmo racconta che esisteva anche un guardiano di mensa il quale, dotato di un grosso bastone o talvolta di un fucile spara sale, come nell’aneddoto che segue, doveva controllare che nessuno abbandonasse la sala prima che fosse terminata la cena. A tale proposito racconta di una Panarda a cui era stato invitato Gabriele D’Annunzio in periodo elettorale. A un certo punto il Vate non ne potè più e cercò di defilarsi, dopo avere più volte gettato sotto la tavola il contenuto del piatto e per questo era già stato redarguito. All’ingiunzione di ingurgitare l’ennesimo piatto, pena una fucilata, il poveretto si alzò, scoppiò in lacrime e … svenne.
Al tempo dei signori l’inizio della Panarda era segnalato dallo sparo di un colpo di cannone nel castello del padrone di casa, in modo che tutta la valle venisse a conoscenza che si iniziava la festa.
Stasera ci limiteremo a un colpo di tamburo all’arrivo di ciascuna delle portate.
È compito del banditore di Panarda, impersonato dal robusto Roberto Angelucci, con i suoi capelli arricciati che si muovono ad ogni colpo, impugnare la mazza e colpire la pelle di tamburo.
La festa è allietata da un personaggio che impugna una piccola fisarmonica e suona motivetti allegri camminando lentamente attorno al tavolo durante la cena. Quando sosta alle spalle di un commensale costui si deve alzare e deve proporre un brindisi alla Panarda, obbligatoriamente in rima. Poi il musicante riprende a suonare e a girare attorno al tavolo per il prossimo brindisi in rima.
Il musicante stasera si chiama Federico, è un ragazzino di diciotto anni (ce lo dirà alla fine della serata) ma ne dimostra meno di quindici. È magro e suona molto bene il suo strumento, che si chiama il dubbotto, perché suona in “du botte”, una all’andata, quando si apre il soffietto e l’altra al ritorno, quando si richiude.
Alle 15.23 il primo colpo di tamburo dà il via alla Panarda pescarese 2008.
Già i camerieri erano passati a distribuire nei bicchieri il primo vino, un bianco Trebbiano d’Abruzzo, servito da anonime brocche tutte uguali a tutti i commensali.
Arriva il piatto numero 1, Misticanza di mare del Leon d’Oro, preparato dai cuochi del ristorante dell’Hotel Plaza, guidati dal bravo Enzo Maiorano.
Tutti i piatti che seguiranno sono stati preparati dai cuochi di famosi ristoranti abruzzesi, tra cui il Leon d’Oro appunto e La Lanterna che ci ospita.
Il piatto numero 2 sono le Polpettine di merluzzo allo zafferano.
Prima del piatto numero 3, i Moscardini alla Cacciatora, Federico comincia il suo giro con il dubbotto per fermarsi alle spalle del Presidente Ezio Ardizzi che dà una dimostrazione di come si può fare il brindisi in rima.
Poi Federico continua il suo giro e si ferma pian piano dietro a quasi tutti.
Nel corso della serata il Gran Cerimoniere Mimmo avrà l’occasione di spiegarci che la Panarda prevede una distribuzione di pietanze scelte in modo che i sapori vadano a crescere. Prima quelli semplici dei pesci o antipasti di mare, poi le zuppe, poi il brodo di carne, che crea uno strato di grasso protettivo nello stomaco, cui segue il lesso, poi un decotto di erbe digestive della Maiella prima di iniziare con le carni rosse, un altro decotto depurativo prima di iniziare con i formaggi e infine i dolci e la frutta, che esula dalla conta delle portate.
Questa la lista completa delle cinquantacinque portate.
Primo Gruppo: Antipasti di magro
1 Misticanza di Mare
2 Polpettine di Merluzzo allo Zafferano
3 Moscardini alla Cacciatora
4 Pannocchie alla Francavillese
5 Involtino di Cianchetta
6 Paparazze o Vongole
7 Cozze
8 Cannolicchi
9 Lumachine di Mare alla Pescarese
10 Crostini con lo Stocco
11 Baccalà Fritto
12 Baccalà all'aquilana
Secondo Gruppo: Zuppe in brodo
13 Minestra di Lenticchie di S. Stefano
14 Quadrucci e Piselli
15 Brodo con Pallottine e Pizza Rustica
16 Lesso e Sottaceti
17 Barchette di Uova e Tonno
18 Decotto della Maiella
Terzo Gruppo: Antipasti di carne
19 Prosciutto di Gamberale
20 Capocollo
21 Neola con Crema di Fave
22 Coglioni di Mulo o Mortadella di Campotosto
23 Schiacciata Aquilana
24 Coppa del Chiavaroli
25 Angioletti
26 Diavoletti
27 Ventricina di Crognaleto
28 Ventricina di Guilmi
Quarto Gruppo: Primi piatti
29 Raviolini Dolci
30 Maccheroni alla Chitarra
31 La Mugnaia all'ortolana
32 Cannellino di Sfoglia
33 Pallotte Cacio e Ova
Quinto Gruppo: Secondi piatti e contorni
34 Coniglio Ripieno
35 Barba di Frate all'agro
36 Coratella
37 Bieta e Fave
38 Arrosticino del Voltigno
39 Porchetta di Campli
40 Insalata Rinforzata
41 Decotto di Nonna Carmela
Sesto Gruppo: Formaggi freschi e stagionati
42 Ricotta tiepida del Pastore
43 Treccia di Tornareccio
44 Pecorino di Farindola
45 Cacio Marcetto
Settimo Gruppo: Dolci e torte
46 Cioccolatino al Mosto Cotto
47 Cioccolatino al Centerbe
48 Le Cancellate
49 Il Pasticcio di Rapino
50 Le Sisarelle delle Monache
51 Tarallucci
52 Bombette
53 Piacerino
54 Torta di Mele
55 Pizza Dolce
Vini: Nestore Bosco / Contesa
Alcune curiosità:
La Ventricina dall’articolo 2 del disciplinare di produzione, “è un salume, insaccato crudo di carne suina, di taglia grande, forma subovoidale ed a grana grande, appartenente alla famiglia dei fermentati non affumicati, speziata con peperone secco trito dolce o piccante”. Si usano le parti più nobili del maiale e viene insaccato per lo più nella vescica del maiale
Il Pecorino di Farindola si produce nel Parco Nazionale del Gran Sasso nei nove comuni dell’area tipica di produzione. Il disciplinare di produzione prevede l’uso del latte crudo cagliato con caglio di maiale. Sono solo le donne a fare il Pecorino di Farindola, in quanto depositarie dell’antica arte casearia tramandata di madre in figlia da circa mille anni.
La Neola è una sorta di cialda che si fa usando un ferro a due facce lavorato o inciso con disegni a losanga o lo stemma o le iniziali di famiglia. Una volta si coceva sul fuoco di legna del camino e poi le cialde si riempivano con salse salate o dolci, a piacere.
La Pizza Dolce è quella che mia madre mi faceva spesso da bambino, in Romagna. Lei la chiamava zuppa inglese ed era buonissima, esattamente come questa di stasera qui alla Panarda per chiudere la festa.
Dopo la dodicesima portata, terminati gli antipasti di magro, è il mio turno per fare il brindisi. Fino dall’arrivo dell’invito mi era venuta la curiosità di conoscere l’etimologia della parola Panarda e finora nessuno ne aveva parlato, così approfitto dell’occasione per comporre, tra una portata e l’altra, un piccolo sonetto in rima con la mia richiesta al Gran Cerimoniere Mimmo D’Alessio:
Siamo venuti in molti da lontano
Per pranzare insieme piano piano
Paparazze, pannocchie e merluzzo
In questa grande terra d’Abruzzo
Torneremo per il mondo a raccontare
Di chiese, di cibi, di monti e di mare,
ma ci resta ancora una domanda
la cosa non attiene alla Iolanda,
ma tutti quanti invece ci riguarda,
quale sia l’etimo della Panarda.
Questo da Mimmo, Gran Cerimoniere
Vorremmo, prima che sia notte, sapere.
Ora brindiamo tutti, con in mano
Questo bianco d’Abruzzo Trebbiano.
La Panarda – Tempus fugit.
Non tarda la risposta di Mimmo. Gli bastano un paio di portate per mettere insieme la risposta, che è la più ovvia. Panarda viene da pane e lardo, il cibo dei poveri di un tempo. L’ironia popolare attribuiva dunque a questo rito il nome del cibo più comune per tutto il popolo delle campagne.
Si succedono ancora altre portate, altri commensali esternano i loro brindisi in rima. Persino qualcuno in lingua inglese, ben composto e ben presentato.
Intanto dalla portata numero 13 non viene più servito il bianco ma si passa al Cerasuolo, sempre dal vitigno Montepulciano d’Abruzzo.
A metà della maratona, durante una delle due soste, ricevo la visita graditissima dell’amico Silvano e Signora. Lui ha avuto la nomina di recente a Presidente del Consorzio dell’olio DOP aprutino pescarese. Non c’eravamo più incontrati dalla selezione degli oli DOP nella commissione di Cariati per il premo Sirena d’Oro 2008. facciamo una bella chiacchierata e quando riprende la festa ci salutiamo con un abbraccio.
Con le nuove portate ormai il primo giro di brindisi si è esaurito e dunque ne preparo un secondo per raccontare lo scorrere del tempo e le prime emozioni che ci hanno colpito.
Intanto siamo arrivati alla portata numero 34 e viene versato il vino rosso, un bel Montepulciano rubino, pieno di colore, di profumi e intenso di sapori.
Ecco dunque la seconda rima in un sonetto per l’avanzamento della cena sul far della sera:
Scorre il tempo inesorabile
Di una giornata memorabile.
Ci siamo immersi nella tradizione
Dei cibi, dei costumi, della dizione.
Anche gli amici forestieri
Hanno apprezzato i caci nei panieri
Anche le signore imbellettate
Si sono alla fin fine rinfrancate.
Arriva dunque del sabato la sera
E abbiamo ancora una bella cera
Dopo i cibi, il bianco e il cerasolo
Col rosso Montepulciano, anche da solo
Brindiamo dunque lieti alla Panarda,
che si fa solo in Abruzzo e qui ci attarda.
La Panarda – Chiusura in crescendo.
Nonostante gli avvertimenti del Gran Cerimoniere, alcuni commensali hanno dovuto cedere le armi e si sono dovuti allontanare per impegni precedenti, ma il grosso della compagnia prosegue imperterrita. Ora crescono sapori, con le carni rosse, la coratella, la porchetta accompagnata dalla gustosissima insalata rinforzata (da uvetta, noci, formaggi, pezzi di frutta e altro).
Dopo il prezioso e buonissimo decotto di nonna Carmela (nonna di Mimmo) inizia la trafila dei formaggi e infine i dolci, che vengono disposti con eleganza sui tre tavoli della sala.
Prima di assaggiarli, visto che da un pezzo si è fatta notte, arriva l’invito a uscire in giardino per la festa della Pupa.
La Pupa è un pupazzo dalle sembianze femminili a dimensione umana, in scala uno a uno. Al suo interno viene posto un giovane robusto che regge sulle spalle una struttura metallica piuttosto pesante, già predisposta con una serie interminabile di fuochi d’artificio che vengono accesi in sequenza.
Il nostro personaggio è situato in una zona buia del giardino, una cinquantina di metri lontano dagli spettatori, comodamente seduti attorno ai tavolini sul prato. Ciò per favorire sia la sicurezza di chi sta a guardare, sia per creare una certa suggestione.
Quando parte la musica la pupa si mette a ballare e uno dopo l’altro, con una sapiente regia, si accendono i fuochi artificiali e le bombette e altri aggeggi di ogni tipo, che sprizzano luci colorate tutto intorno a questa pupa danzante e in alto nel cielo sopra di lei e sopra di noi. È uno spettacolo stupefacente, incredibile, che ti fa venire la voglia di ballare per la musica allegra ma ti tiene anche incatenato alla sedia per non perdere né un colore né una scintilla di quelle esplosioni che avvengono in cielo. Il nostro uomo dentro alla Pupa, che continua a danzare inesorabilmente, deve avere le orecchie ben protette, altrimenti non potrebbe resistere ai botti che si susseguono intorno a lui e prosegue a danzare per quasi una ventina di minuti. Sul prato siamo tutti attoniti e stupiti da questa meraviglia inaspettata. Alla fine un lungo applauso precede il rientro in sala per l’assaggio dei dolci a buffet e per tornare al proprio posto per l’ultima portata, una torta bellissima, ma ancora più buona, presentata in lista all’ultimo posto semplicemente come Pizza dolce. In realtà si tratta di una squisita torta coperta di codine dolci di tutti i colori e all’interno fatta a strati di pan di Spagna bagnato nell’alchermes, di crema, ancora pan di Spagna, cioccolato, e infine ancora pan di Spagna. Mi ricorda la zuppa inglese che mi facevano la mamma e la nonna da piccolo nella casa di Verucchio. Semplicemente superba.
Con i dolci il vino è un bel passito dal colore dorato e dai sentori di frutti maturi e di miele, una delizia per nulla stucchevole.
Ormai Federico non passa più dietro ai posti dei commensali, anche lui si riposa e ci si sta preparando al discorso finale da parte del Presidente Ezio Ardizzi. Allora chiedo a Claudio, che dirige la conclusione della serata, di poter leggere ancora un sonetto, che avevo preparato durante l’assaggio dei formaggi, per un ringraziamento finale di questa splendida serata:
Oramai è arrivata anche la notte
E il vino sta per finire nella botte.
Fuori, nel cielo, si vedono le stelle
In cucina si stan vuotando le padelle
Finiti i pesci, gustate carni a fiumi
Passati i formaggi, adesso i dolciumi,
non solo parrozzo, non solo cellucci,
abbiamo bombette, zise e tarallucci
e finiamo con il dolce migliore
il cioccolatino che rasserena il cuore
e qui brindiamo a Voi, a Federico,
ai cuochi, ai camerieri e a chi non dico
e guai a quella mano che si azzarda
a non brindare alto alla Panarda.
Per finire la festa ad ogni commensale viene consegnata una pergamena che attesta la partecipazione alla Panarda 2008, con il nome di ciascuno e con la lista di tutte le portate, lista riportata poco sopra per i posteri e per chi non c’era.
Sarà bello rileggersi tutti questi piatti da parte di chi ha avuto la fortuna di stare a quella tavolata fra qualche anno. Ciascuno di noi si sarà dimenticato di quei piatti. Forse ricorderà che erano una cinquantina. Ma sono più che convinto che al solo rileggere lentamente e con attenzione la successione delle portate rivivrà anche visivamente quanto aveva vissuto, le papille in bocca cominceranno a salivare e dall’archivio della memoria salteranno fuori i sapori di quella sera e persino i colori dei piatti e il vino bevuto e la forma del cibo nel piatto, come in una lontana ipnosi.
Prima di partire per l’Abruzzo dal materiale che avevo ricevuto la Panarda mi aveva spaventato per come veniva presentata: un susseguirsi di piatti tradizionali con pietanze d’obbligo, “che non possono mancare in nessun caso. Essi sono: brodo di gallina e vitello, il caldaio del lesso, maccheroni carrati all'uovo con ragù di carne di pecora e detti "di Sant'Antonio", la pecora alla cottora, le fave lessate e condite, le frittelle di pasta lievitata, le ferratelle, la frutta con cui sono confezionate le corone e la panetta”. Insomma sembrava una grande abbuffata.
In realtà la morale che ne ho ricavato vivendola di persona è che la convivialità, a tavola e non, è, o può diventare, una filosofia di vita.
Lo stare a tavola in allegria, con le giuste misure tra il cibo e il suo consumo, con la giusta successione delle pietanze, con il corretto accompagnamento con i vini, con l’esprimere le proprie emozioni secondo modi e tempi e ritmi controllati e regolati, si traduce in un profondo piacere per ciascuno di noi.
In definitiva si può concludere con questa regola filosofica del cibo: quantità, qualità e lentezza non fanno affatto ingrassare il corpo, ma deliziano tutta la persona: corpo, mente e anima.
FotoCredit Luigi Bellucci.
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