Storie di donne, di uomini e di terre a Verdicchio
Il Montefeltro in quel di Pesaro e i Castelli di Jesi in quel di Ancona sono il biglietto da visita che presentano le Marche rispettivamente a chi arriva dalla Romagna e dalla riviera del Cònero. Queste righe raccontano di un viaggio in questi territori, con un accenno ai primi e un approfondimento dei secondi. Sono storie di donne e di uomini che vivono sulla terra e per la terra e producono cose che danno emozioni, cose buone, per le quali vale la pena passare qualche giorno da queste parti, alla ricerca e alla scoperta dei sapori di una volta e della semplicità della gente che ci lavora, gente sincera, genuina, schietta.
Venerdì 1° Dicembre 2006
Visita all'Azienda Sartarelli
Si parte da Genova attorno alle undici. Il sole è alto nel cielo. La temperatura mite di questo fine autunno fa sembrare oggi una giornata di inizio primavera. Non c'è molto traffico sulla Serravalle né sulla Torino Piacenza. Un po' di più tra Piacenza e Bologna, poi a tratti fino a Rimini. Per fortuna quasi tutti i cantieri sono chiusi e si viaggia senza intoppi. Usciamo a Rimini per lasciare dei pacchi a casa, a Verucchio, e prendere la credenza della zia Paolina. A San Marino facciamo il pieno e riprendiamo l'autostrada a Rimini Sud che è già buio. Usciamo a Senigallia e di qui in direzione sud-ovest raggiungiamo dopo circa 25 chilometri Serra de' Conti, un piccolo paese arroccato sulla cima di un colle come ce ne sono a decine da queste parti. Sono paesini di cultura contadina, che fino agli anni 70-80 hanno vissuto semplicemente e poveramente. Ora stanno rifiorendo. La piccola industria e la cultura del cibo genuino, la ricchezza e la varietà del territorio, la pazienza e la tenacia dei contadini sono gli ingredienti di questa saporita ricetta dell'eno-gastronomia marchigiana del 2000.
Visiteremo domani un'azienda di punta del territorio marchigiano, Sartarelli, di Poggio San Marcello, provincia di Ancona. Fanno Verdicchio. Il loro Balciana 1997 ha vinto nel 1999 il primo premio al Wine Challange di Londra e questo la dice lunga su come questa azienda concepisce il fare vino di qualità. La Signora Donatella, con l'aiuto del marito Patrizio Chiacchiarini e dei figli Caterina e Tommaso, conduce una realtà di oltre 65 ettari vitati, tutti a Verdicchio, con grandi investimenti anche nella ricerca e nella valorizzazione di cloni quasi dimenticati; ne hanno sperimentato 32 per ottimizzare ancora di più la loro produzione e migliorare, se possibile, la qualità di eccellenza del loro Verdicchio. Li aiuta dal 1996 Alberto Mazzoni, il loro enologo, persona di competenza e solidità professionale, riconosciuta sia in regione (è presidente degli enologi marchigiani) sia in Italia (ha incarichi ministeriali), sia in Europa (va spesso a Parigi per consulenze e incontri).
Il padre di Donatella, Ferruccio Sartarelli, aveva negli anni 50-60 un piccolo podere di una decina di ettari a Montecarotto, ma allora sulla terra non ci si viveva, rendeva poco e c'era molto da faticare. Fu così che con il fratello decisero di aprire un forno, accettando il rischio di fare pochi affari perché allora da quelle parti quasi tutti si facevano il pane nel forno di casa. Ma l'attività cominciò a rendere, si ritornò a dare un'occhiata anche alla terra, mai del resto abbandonata e poi dal 1972 le uve non furono più vendute alla cantina del paese, ma vennero trasformate in proprio e così Ferruccio ritornò definitivamente alla sua vera passione, quella della terra e della vigna. Eventi dolorosi hanno poi costretto Donatella e Patrizio a fare da soli perché sia il padre che la madre sono deceduti troppo giovani, hanno preso in mano quei pochi ettari opponendosi alla vendita che suggerivano gli altri familiari. Si sono rimboccati le maniche e hanno saputo far crescere l'azienda in termini di qualità. Del resto era l'unica strada percorribile perché già c'era in paese una cantina che faceva molto vino a basso costo e con la quale era impensabile confrontarsi sul terreno dei prezzi bassi e grandi quantità. All'inizio è stato difficile, ma oggi possono essere soddisfatti dei risultati che hanno ottenuto perché il loro duro lavoro li ha ripagati dei sacrifici: il loro è davvero un bel Verdicchio, con riconoscimenti nazionali e internazionali.
L'accoglienza
Siamo loro ospiti stasera al ristorante dell'Hotel Giardino di San Lorenzo in Campo, un altro bel paesino del pesarese. Lo conduce Massimo Bigiali, con la moglie e il figlio. Il ristorante è raffinato, con tavoli rotondi e sedie rivestite di stoffa bianca, tende a pacchetto alle finestre, sottopiatti eleganti e pizzi di decoro. Il servizio è puntuale e professionale. La sala di ingresso ospita il lungo bancone bar sulla sinistra e al centro un camino con il fuoco acceso; ceppi odorosi di pino e faggio ardono sugli alari mentre sui tavoli sono serviti prosciutti, salami, ciaùscolo (un salame fresco e giovane, quasi da spalmare), pezzi di parmigiano reggiano e di pecorino locale, olive ascolane e pane casereccio, bagnati da flutes di un brut millesimato Velenosi 2003, di Chardonnay e Pinot nero.
In sala ci accomodiamo a una tavolata lunga (siamo una quindicina) per la cena che prevede piatti del territorio, nella tradizione dei Bigiali, accompagnati da vino marchigiani, ovviamente quelli dei Sartarelli, sia il Tralivio, sia il Balciana (due loro vigneti particolarmente vocati), ma anche un Rosso Cònero Umani Ronchi, di uve Montepulciano 100% (troppa barrique), e un Fazi Battaglia Alchezia muffato di San Sisto. La cena si sviluppa in un crescendo di sapori tra le portate che si susseguono e i vini loro abbinati. Gli antipasti si sviluppano in Involtini dì melanzane con salsa dì Sapa, a seguire tartare dì filetto dì scottona marchigiana e poi uova strapazzate con tartufo bianco dì Acqualagna. Tutti i piatti sono bagnati con il Tralivio 2004. Si passa poi ai primi in abbinamento al Balciana di annate diverse, più giovane per i passatelli con fonduta dì caciotta di Urbino e tartufo bianco dì Acqualagna, più maturo per il Raviolo con Pera Angelica di Serraungarina. Il piatto forte è la tagliata di manzo selezione Cecchini e poi le costine d'agnello con pomodorino e rosmarino abbinati a un Rosso Conero Cumaro 2000 Umani Ronchi.
Fuori programma Massimo Bigiali ci propone dalle sue cantine un Balciana 1998 veramente straordinario, sia per il colore, di un giallo paglierino carico tendente all'ambrato, sia per i profumi di pane cotto, di miele e di foglie di noce, sia per il sapore, ancora fresco, con un grande corpo, note di affumicato, sentori di miele e di frutta bianca matura, dalla mela alla pesca, una vera "chicca". Sinceramente con la tagliata di manzo e le costine di agnello ha fatto sfigurare il rosso.
Una breve sosta di meditazione sull'ultimo Balciana e poi in tavola i dessert, con le Torte di cioccolata, arance e latte su cioccolata liquida e Alchezia muffato di San Sisto 2000 di Fazi Battaglia, un passito di Verdicchio 100% che purtroppo era un po' spento.
Usciamo dal locale che è già sabato. Riprendiamo le strade tortuose da San Lorenzo fino a Serra de' Conti passando per Barbara. Terre difficili, percorse fino a poco tempo fa a piedi o a cavallo di animali da soma o da traino, con i castelli, i palazzi settecento o fine ottocento con i portici e i mattoni rossi, qualche lapide commemorativa, le fontane al centro della piazza principale del paese, poche anime in giro a quest'ora. Un grazie di cuore a Donatella e Patrizio e poi a dormire perché domani ci aspetta una giornata altrettanto intensa.
Sabato 2 Dicembre 2006
L'Azienda
Abbiamo dormito all'Hotel dei Conti di Serra de' Conti. La sveglia delle 8 è accompagnata dai raggi di luce che filtrano dalle finestre semichiuse. Alzo le serrande e mi affaccio a respirare l'aria fresca della mattina. Un leggero velo di foschia copre appena i colori pastello della campagna e del cielo di inizio dicembre. La vallata del Misa, che scende da Arcèvia fino a Senigallia, si distende ampia e dolce davanti agli occhi. A destra in fondo valle si vedono le case di Osteria, la frazione di Serra, e a rotazione verso sinistra, sulle cime dei colli di fronte, Piticchio, Arcévia fino a Serra San Quirico, che sembra la cima più alta. L'orografia di questa vallata ricorda molto quella del Marecchia, a me più familiare per esserci nato e vissuto nella prima infanzia, qualche decina di chilometri più a nord, con le stesse campagne, gli stessi spazi e terreni e casolari.
Scendiamo per la colazione che Terzo Gianfelici, il patron dell'Hotel, ci prepara al momento, con brioches ancora calde, yogurt, latte fresco e cereali, marmellate, miele e succo d'arancia.
Alle 9.40 si parte per Poggio San Marcello a visitare l'azienda Sartarelli.
Arriviamo sul piazzale davanti alla vecchia casa colonica, la vecchia aia ora pavimentata, vera terrazza sulle vigne di Balciana e di Tralivio, oltre le quali si apre la valle del Moie che diventa poi Esino e scende verso Jesi per buttarsi nell'Adriatico tra Falconara e Ancona. Patrizio e Alberto sono già pronti per raccontarci la loro azienda. Aspettiamo gli ultimi ospiti e verso le dieci ci raccontano come riescono a fare vini così buoni e premiati. Sono fieri di avere messo in piedi questa azienda che produce 65 ettari di monovitigno Verdicchio dei Castelli di Jesi, senza botti e senza barrique. L'azienda ha sei dipendenti fissi e una quarantina di persone per tutto il periodo della vendemmia, che raccolgono sia l'uva, sia le olive per fare l'altro prodotto eccellente dell'azienda, l'olio extravergine Sartarelli, dai sentori fruttati di oliva e carciofo tipici delle cultivar autoctone locali, insieme al Frantoio e al Leccino. Le uve selezionate, la cura del vigneto, le quattro vendemmie che si susseguono da fine agosto a metà novembre di ogni anno consentono loro di scegliere da ogni appezzamento solo quei grappoli che sono pronti per la pigiatura.
Vi siete mai sognati di raccogliere da un fico tutti i frutti lo stesso giorno? Alcuni sono maturi, ma altri sono ancora indietro e bisogna aspettare che la natura faccia il suo corso, che il sole illumini bene ogni frutto, che la linfa arrivi bene in ogni ramo e solo quando la polpa diventa morbida e zuccherina e si cominciano a vedere le prime screpolature sulla buccia verde, allora si può raccogliere. Lo stesso si deve fare con l'uva. Dice Patrizio, giustamente orgoglioso del suo lavoro, che il colore degli ultimi grappoli raccolti a metà novembre, quelli che danno quel Balciana così grande, è viola, tanto hanno resistito ai calori estivi e poi ai primi freddi autunnali. Ed è dai quegli acini violacei che si estrae quel nettare che verrà imbottigliato alla fine dell'anno successivo e poi maturerà ancora un anno in bottiglia prima di andare alla vendita.
Dopo la pigiatura nelle presse a polmone il vino riposa qualche giorno in vasche di cemento e poi passa nelle torri di acciaio per la fermentazione, a temperatura controllata. Il mosto fiore viene imbottigliato e l'altro vino è venduto in damigiane nel territorio. Racconta Alberto che dopo il premio vinto a Londra nel 1999 hanno saputo fare argine al richiamo delle sirene dell'avidità economica, avrebbero potuto triplicare la loro produzione di Balciana, ma avrebbero snaturato la loro produzione. Hanno continuato a fare le stesse quantità, hanno mantenuto le stesse caratteristiche qualitative su tutta la produzione e oggi vogliono aiutare la promozione del Tralivio.
Alberto spiega che la vigna produce 110 quintali di uva per ettaro, con una densità di 2500 - 3000 piante per ettaro a Guyot che si rinnova, ma che loro fanno una selezione già al momento della potatura autunnale, subito dopo la vendemmia, lasciando il giusto numero di gemme che nell'anno successivo daranno i frutti pianificati, tanto di Balciana, tanto di Tralivio, tanto di vino da tavola.
Non amano sfoltire le piante in estate, né correggere la traiettoria della loro annata in piena corsa, non avrebbe senso, visto che pianificando tutto in anticipo si ottiene un prodotto eccellente. In piena primavera, aprile e maggio, fanno la sistemazione del verde. Sia la concimazione, sia i trattamenti alle piante sono mirati in funzione dell'andamento climatico. Nelle annate non perfette il Balciana non si produce, come per esempio è stato fatto sia nel 2002, sia nel 2005.
La cantina riproduce la disposizione dei vigneti con i serbatoi distinti per appezzamento. Ogni terreno dà un prodotto con caratteristiche diverse dagli altri e uno dei compiti di Alberto è proprio quello di unire e amalgamare queste singolarità in un'armonia di sapori e di profumi che ogni bottiglia sarà capace di esprimere al momento dell'apertura sulla tavola del grande ristorante o della piccola famigliola di Montecarotto.
Il mercato del Verdicchio Sartarelli si sviluppa per il 45% circa in vendita diretta, per un 30% verso la distribuzione nazionale e per il restante 25% al mercato estero, con punte verso gli Stati Uniti, la Norvegia, l'Inghilterra, il Giappone, la Svizzera. Nelle Marche oggi operano almeno 1200 aziende produttrici di Verdicchio perciò il modo migliore di investire è quello sul proprio nome e sulla qualità che questo nome richiama. Oggi il nome Sartarelli è diventato una garanzia di ottimo vino ed è conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Si sta bene fuori, al sole, anche se fra tre settimane è Natale. L'aria è fresca ma è un piacere ascoltare Alberto e Patrizio e i loro racconti di vita e le loro esperienze. È venuto il momento di spostarci nella cantina, a dare un'occhiata alle cisterne di acciaio dove sta fermentando la nuova produzione, il 2006, che sarà certamente una grande annata, forse meglio del 2000, che è stata memorabile.
La cantina è stata costruita quasi tutta interrata, a causa dei vincoli di edificazione imposti dal piano regolatore comunale, è uno specchio di pulizia e ordine. L'azienda vi produce circa 400.000 bottiglie l'anno. Una centralina elettronica controlla la temperatura di ogni singola cisterna in modo automatico. Le uve, appena raccolte passano in una pressa orizzontale e poi subiscono una decantazione statica con enzimi in vasche di cemento, che è stato scelto proprio perché è un cattivo conduttore di calore e mantiene costante la temperatura. I terreni Santarelli sono generalmente ricchi di potassio e in vinificazione si sta molto attenti a conservare l'acido malico, che dà al vino il suo caratteristico colore verde. Si fa un uso moderato della solforosa, con 70-80 mg in vinificazione e non più di 30-35 di libera in bottiglia.
Quando il vino è pronto si passa all'imbottigliamento. Ogni giorno si imbottigliano circa 50 ettolitri di vino, pari a circa 7000 bottiglie, in modo da distribuire tutto il carico operativo lungo i dodici mesi, senza punte di lavorazione troppo onerose. In questo modo si riducono i costi e si riesce a fornire un prodotto eccellente a un costo veramente contenuto.
Alberto e Patrizio hanno scelto la tappatura con solo sughero perché il silicone non consente al vino di maturare in bottiglia, in proposito hanno fatto ovviamente degli esperimenti constatando una differenza significativa tra le due modalità di chiusura della bottiglia. I loro tappi sono di elevata qualità e hanno una percentuale di bottiglie "andate a male" per colpa del tappo di qualche unità per mille.
Due verticali aspettando il pranzo
Tra un po' è quasi ora di pranzo perciò ci si sposta tutti nella vecchia casa di campagna di fronte alla cantina, quella costruita dalla signora Margherita Honorati, vedova Lorenzetti, nel 1882, come testimonia la targa in marmo sotto alla scala che porta al piano superiore.
Oltre la stanza con le targhe e i premi vinti in questi ultimi otto anni c'è una tavola apparecchiata per la degustazione verticale di Tralivio prima e di Balciana poi.
Prima degli assaggi Alberto ci propone una panoramica sulla vinificazione italiana e marchigiana, con attenzione particolare al Verdicchio.
Le marche rappresentano circa il 2,4% della produzione vinicola nazionale in termini di ettolitri (1,2 milioni su 50 nazionali) e il 2,8% in termini di ettari coltivati a vino (21.500 ettari su 750.000 nazionali), distribuiti su circa 27.440 aziende, con una superficie media per azienda di 0,85 ettari, a indicare un frazionamento eccessivo degli appezzamenti. Nel 1980 si contavano circa 40.000 viticoltori per 33.000 ettari, quando in Italia la superficie vitata era di 1.230.000 ettari. Da allora c'è stata una forte contrazione, come si vede dai numeri, tuttavia dal 1995 i valori si mantengono costanti sui numeri attuali, con piccole variazioni percentuali da un anno all'altro.
La tradizione marchigiana in passato è sempre stata incentrata sui vini bianchi, ma nel 2005, per la prima volta la produzione dei vini rossi ha superato quella dei vini bianchi (620.000 ettolitri contro 580.000). nella regione la fa da padrone, quantitativamente la provincia di Ascoli con oltre il 50% della superficie vitata, seguita da Ancona con il 30% e poi da Macerata e Pesaro con un 11% e 9% circa.
La regione conta inoltre 2 DOCG (Vernaccia di Serrapetrona e Conero) e 14 DOC. le prime cinque doc sono nate negli anni 60 e poi c'è stato un calo nelle richieste con solo cinque doc nei successivi 30 anni. Dagli anni 2000 c'è stato un risveglio: altre sei doc si sono aggiunte alle precedenti e attualmente si sta lavorando su altre due DOCG (Verdicchio dei Castelli di Jesi tipologia Riserva e Verdicchio di Matelica) e alla doc Bianchello del Metauro Riserva.
Visti i numeri si passa quindi alle due verticali. Giuseppe Cristini, con il suo accento perfettamente Montefeltrino, sommelier professionista di Mercatello sul Metauro, guida la degustazione, professionale e attento agli abbinamenti cibo - vino per ciascuna tipologia. Lo assiste il collega Danilo Cottini, anche lui della delegazione AIS del Montefeltro, che mesce a tutti i degustatori la giusta dose di vino nei grandi calici da degustazione.
Il primo vino della serie Tralivio è il 2005, suggerito in accompagnamento a crostacei e pesci dell'Adriatico, segue poi il 2004, per il quale Giuseppe suggerisce zuppa di funghi con olio extravergine. Con il 2003 ci sta bene coniglio in porchetta e olive e infine per il 2001 propone il fois gras o fegato grasso su tartine di pane casereccio leggermente tostate in forno.
Prima di passare alla verticale di Balciana ci racconta le sue degustazioni di formaggio di fossa, vinte quest'anno da quello delle fosse di Perticara, ricche di sapori e aromi minerali (sono famose le miniere di zolfo di quella zona), in abbinamento al quale la giuria aveva scelto come vino lo Stracacio 2003 Coroncino.
Si parte dunque con il Balciana 2004, già grande e accattivante, abbinato a un piatto di tagliatelle al formaggio e tartufo bianco. Con il Balciana 2003, maestoso, Giuseppe vede bene formaggio di fossa e pera Angelica. Segue il Balciana 2001, un vino più semplice dei precedenti che potrebbe affiancare un piatto di carni bianche e terrina di coniglio. Infine uno strepitoso Balciana 2000, talmente ricco di aromi e profumi e sapori in bocca e in retrogusto da bere da solo, come vino da meditazione, senza rovinarne le caratteristiche con qualche piatto, seppure grande.
Siamo tutti talmente stupiti da questo ultimo Balciana 2000 che nemmeno ci accorgiamo che il grande piatto di portata con salumi e formaggi è arrivato in sala per il pranzo di mezzogiorno, che sarà per fortuna più leggero di quello di ieri sera.
Durante la colazione si assaggia una minestra di cicerchia con l'olio extravergine di Sartarelli e poi si ricordano altre tipicità marchigiane. Si parla quindi di vincisgrassi, il tipico piatto marchigiano codificato nel 1779 dal cuoco Nebbia. Il nome è di origine ignota. Si sono fatte delle supposizioni, prima in assonanza con il cognome simile di un austriaco che è sì passato da queste parti, ma qualche decina di anni più tardi della ricetta del Nebbia. La versione più plausibile è la storpiatura di princis-grassus, o piatto grasso per il principe, o anche di vincio-grassi, vale a dire metto insieme i grassi nella ricetta. Il piatto è una sorta di timballo di lasagne fatto a strati, con condimenti tra le lasagne, i cui ingredienti base sono le rigaglie di pollo e la besciamella.
In origine era un piatto in bianco, oggi vi si aggiunge il ragù rosso. Mentre ne parlano mi accorgo che la bocca mi saliva in maniera esagerata: mi ritorna alla mente quel piatto che mia mamma preparava alla domenica alternando cinque o sei strati di lasagne magari di pasta verde a strati di ragù con le rigaglie di pollo e anche di coniglio, se c'erano, e poi abbondanti cucchiaiate di besciamella e finiva con qualche noce di burro giallo in copertura sopra l'ultimo strato di ragù.
E poi infilava la teglia pesantissima nel forno di casa mentre io in un angolo passavo il dito indice all'interno del tegame della besciamella per raccoglierne gli ultimi avanzi e mi leccavo con ingordigia il dito coperto dello strato bianco, rubando qualche volta sul fondo del tegame, se non era stato ben rimescolato, la parte un po' più abbrustolita che sapeva di leggero affumicato.
Da noi a Verucchio, alle soglie del Montefeltro marchigiano, quel piatto si chiama lasagne al forno, magari verdi, ed è fantastico, quando si trova ancora qualcuno che lo sa fare bene, con quella bella crosta croccante che si forma in superficie quando si toglie la teglia dal forno.
Alla fine del pranzo di mezzogiorno ci è rimasto però netto in bocca e negli occhi lo splendido tiramisù preparato da Caterina, la giovane Sartarelli laureata in Economia e Commercio con master a Monaco di Baviera, una schietta ragazza marchigiana con lineamenti di una bellezza greca antica, con occhi grandi e lunghi capelli neri, che si appresta ad affiancare e poi sostituire i genitori alla conduzione dell'azienda, insieme al fratello Tommaso, che studia agraria per conoscere tutti i segreti che potranno essergli utili quando toccherà a lui prendere le decisioni sulla vendemmia e sulla vinificazione.
L'incontro con le autorità tra Robbiani e Musei rari e nuovi affreschi
Nel pomeriggio è previsto un incontro nel Comune di Poggio San Marcello con il sindaco, il giovane Tiziano Consoli, nel suo look da Rodolfo Valentino, alla presenza anche del Presidente del Consiglio Regionale, Raffaele Bucciarelli. L'incontro vuole evidenziare quanto questo paese e questa regione siano grati al Verdicchio di Sartarelli e al suo Balciana per aver contribuito a far conoscere e diffondere il nome di Poggio San Marcello nel mondo. Un piccolissimo comune delle Marche, che nel 2005 contava 763 abitanti, è potuto emergere su tanti nomi più conosciuti e più famosi grazie a questo vino prodotto nel suo territorio. Alla fine dell'incontro in Comune, si ritorna tra le strade seicentesche del paese e non si può non ammirare un Della Robbia: la Madonna col bambino che ci guarda dalle vecchie mura vicino alla porta nord. Fuori le mura ci aspetta il pullman che ci deve portare lì vicino, al Museo delle Arti Monastiche di Serra de' Conti, un museo unico in Italia.
Anche Serra de' Conti è un pezzo di storia medievale rimasta intatta per la gioia dei nostri occhi. Si entra dalla solita porta ad arco aperta nelle mura antiche e si gira subito a destra nel vicolo che costeggia la chiesa barocca delle Clarisse del monastero di Santa Maria Maddalena che stanno recitando i Vespri. Andando verso il museo accompagnati dall'assessore incontriamo Bruno di Arcèvia, un personaggio che sembra uscito dai libri d'arte, un cappello nero a tesa larga in testa, la barba lunga di qualche giorno di chi è occupato a fare cose più importanti, lo sguardo vispo e attento di chi osserva i particolari. Bruno è un pittore che sta attualmente affrescando il soffitto di una stanza all'interno del Comune, adiacente al complesso del monastero, e che ci invita ad andarlo a trovare più tardi.
Entriamo dunque nel museo attraverso un chiostro in cui sei alti platani ormai spogli fanno ombra d'estate ai visitatori e mitigano la calura delle giornate assolate. Queste antiche mura hanno sempre messaggi nascosti per ciascuno di noi, diversi l'uno dall'altro, che trasmettono con i colori dei mattoni, con i graffi sui muri, con piccole fessure da cui spunta qualche ciuffo d'erba. Nell'atrio del museo un plastico di Serra de' Conti ne mostra le vie, i palazzi, le finestre e gli archi. Mi è sempre piaciuto osservare ogni minimo particolare per vedere le proporzioni, ritrovare una casa nota, cercare la strada in cui siamo passati, individuare il palazzo in cui siamo adesso.
Una giovane ragazza ci fa da guida tra le stanze del tempo sospeso che stiamo visitando. Si inizia dalla Farmacia o Spezieria, com'era chiamata ai tempi in cui le monache vivevano ancora nei locali del museo. Tutto è conservato come allora, due o trecento anni fa. Vasi di ceramica, ampolle, alambicchi, provette, fiaschi in vetro soffiato di Murano, alcuni con ancora all'interno gli ingredienti originali di tre secoli fa, e poi ancora libri quasi unici come l'arte dello speziale che un genitore ricco aveva fatto avere alla figlia monaca tra queste mura, e insomma ogni sorta di attrezzo o strumento che poteva servire a preparare dei medicamenti.
Per andare verso le cucine si sosta davanti a un tabellone che elenca la gerarchia del Monastero e i diversi offici che vi si tenevano. Ogni sorella aveva il proprio incarico, molto particolareggiato nelle mansioni. Anche le cucine sono da ammirare per tutta la fila di utensili, dalle brocche ai piatti, dai vasi di metallo alle zuppiere ai contenitori in ceramica appoggiati o in mostra da cassapanche, credenze, cassette e armadi dell'epoca. Una lavagna descrive la Pasquella, il canto che i contadini facevano per la questua di inizio inverno, quando tra Capodanno e l'Epifania andavano di casa in casa a raccogliere ogni cosa che potevano avere in dono, in genere cibo o attrezzi per la casa. Un'altra descrive i piatti che dovevano essere cucinati nelle varie stagioni, in funzione delle ricorrenze da festeggiare e dei prodotti che la terra dava in quel periodo. Da un altoparlante spunta ancora la voce di questi canti antichi, le preghiere delle suore e il loro parlare sommesso, il rumore delle attività dei telai, delle cucine, il suono della campanella.
Per ultimo si passa nel Laboratorio o Teleria, dove stanno vecchi telai e strumenti e sostanze per colorare le stoffe e le tele, attrezzi per il cucito e molti reperti di stoffe e ricami uno più bello dell'altro. Era tradizione ancora nel secolo scorso che le bambine di campagna andassero dalle monache a imparare l'arte del pizzo o del merletto a tombolo, a fare ricami, macramé, cordoni, a imbastire, a fare il punto croce, il chiacchierino, a modellare la cera con le mani, a costruire fiori di seta o la rete ricamata. Un video racconta in maniera dettagliata queste antiche arti e fa vedere esempi e campioni di esecuzione di ricami e di pizzi a colori stupendi, fatti dalle monache o dalle loro allieve, le giovani educande di buona famiglia e della campagna.
Si sta facendo tardi e per una scaletta stretta saliamo dal museo nelle stanze del Comune di Serra de' Conti, dove ci riceve il sindaco Bruno Massi per accompagnarci nella sala dove Bruno Bruni, o Bruno d'Arcèvia sta col collo piegato verso il soffitto e la mano alzata sopra la testa, a dipingere un cielo azzurro che fa da sfondo a una delle scene campestri raffigurate sulla volta illuminata dalle lampade fissate sulle impalcature che riempiono la sala. Bruno ha già completato due terzi dell'affresco. È un'opera sul territorio, che parla di artigianato, di agricoltura, di buon governo, dove sono rappresentate la giustizia, l'intelligenza, la saggezza, dove si vedono i mestieri del popolo, calzolai, carrozzieri, bottai, fabbri alle loro fornaci, giovani con grappoli di verdicchio luminosi e dorati, spighe di grano, viti che si arrampicano attorno agli olmi e agli aceri, la cicerchia di Castelluccio, il fiasco dell'acetella sulla tovaglia stesa sull'erba. Sono ancora da rappresentare i cavalieri che escono dal paese ognuno con una bandiera diversa dall'altro a simboleggiare la festa della Pace. Con ancora negli occhi i colori luminosi del nuovo affresco di Bruno usciamo da questi luoghi magici nell'aria fresca della sera a riveder le stelle.
La cena di gala
Stasera è previsto un incontro con autorità e giornalisti all'interno dell'azienda Sartarelli. Prima però ci spostiamo alla vecchia Fornace di Osteria, una frazione di Serra de' Conti, in basso verso il fondo valle. Da metà ottocento fino agli anni '50 la fornace (tipo Hoffmann, a carica mista e a funzionamento continuo) ha prodotto mattoni e laterizi per l'edilizia. Poi è stata abbandonata per una trentina d'anni e verso la fine del secolo scorso è stata ripristinata come locale per mostre e convegni con una copertura rotonda stile tempio romano. Nella parte centrale è stato allestito un piccolo banchetto per l'aperitivo, preparato dal ristorante di Dario Giacomelli che da un paio d'anni è allestito nella nuova struttura della Fornace. Le luci soffuse che vengono da terra e dalla parete centrale dell'edificio rotondo creano un ambiente tra il romantico e il misterioso ed è l'occasione per conoscere un altro prodotto alimentare di questa terra inesauribile, il lonzino di fichi, una sorta di salame dolce fatto con fichi fatti seccare e poi impreziositi con anice e qualche pezzetto di noce o frutta secca e infine avvolti stretti da una vera foglia di fico che fa da involucro. È veramente delizioso e molto particolare.
Si va per una rinfrescatina in albergo e alle otto si torna all'azienda dove un centinaio di ospiti parteciperanno alla cena di gala. Sia Patrizio, sia Donatella sono piuttosto emozionati perché è la loro prima cena importante, sono state invitate le principali autorità della provincia e della regione e temono qualche imprevisto complicato da gestire. Si inizia fuori, sotto una struttura mobile, ad assaggiare olive ascolane ancora calde con cuore di pesce e code di gamberi dell'Adriatico e crostini salati al rosmarino bagnati da Verdicchio classico. Poi si passa all'interno, nel salone attrezzato per la serata dove a tavoli rotondi da otto si accomodano i padroni di casa, che si fanno veramente in quattro per far sentire a loro agio gli ospiti, le autorità e i giornalisti invitati.
In piatti bollenti vengono servite per prime canocchie bollite e poi scampi di fangoni dell'Adriatico con carote dolci all'olio extra vergine Sartarelli, a seguire gamberi reali al succo di limone acerbo e poi filetti di gallinella e zucchine dorate. Il vino in abbinamento è il Verdicchio dei Colli di Jesi Sartarelli Classico. Gli antipasti sono deliziosi e ben fatti, con servizio veloce e puntuale.
Per primo un risotto mantecato ai calamaretti e polpa di scampi abbinato al Tralivio 2005, poi un eccellente rombo chiodato con patate di Castelluccio e Balciana 2004, adatto anche per il successivo formaggio di fossa con pere. Per finire cioccolatini con grappa dei vigneti Sartarelli e caffè. Dopo i rituali ringraziamenti delle varie autorità e l'intervento di qualche ospite un po' troppo sopra le righe, si ritorna all'albergo che è passata mezzanotte e la temperatura è scesa sotto i dieci gradi, ma la ricchezza della cena consente di reggere bene l'impatto con i primi freddi invernali.
Domenica 3 Dicembre 2006
Le Grotte di Frasassi
La giornata è ancora bella. Ci sono un po' di nuvole in cielo ma il sole spunta e a fine mattinata avrà avuto il sopravvento. Dopo la colazione in albergo ci troviamo tutti nel piazzale dell'azienda.
Facciamo tre macchinate per andare a visitare le grotte di Frasassi, a una trentina di chilometri di distanza. Alfredo ci ha vissuto una settimana per fare dei servizi negli anni '80. ci accompagna ugualmente ma non entrerà a visitarle. Preferisce fare due passi a rivedere i luoghi all'esterno, a rivangare vecchi ricordi, a riprovare passate emozioni. Anche Angelo e signora ci accompagnano fino alle grotte, per accertarsi che vi sia la guida che avevano richiesto, ma poi ci lasciano per loro impegni.
Entriamo dunque per la visita con la nostra guida, Graziano Morettini, un ragazzo simpatico che ci racconta per filo e per segno come sono state scoperte il 29 settembre 1971 da un membro del Gruppo Speleologico Marchigiano CAI di Ancona durante una scalata alla montagna esterna. È stato un refolo di vento che usciva dalla roccia in una giornata di sole senza una bava di vento, a fargli capire che al di là della parete poteva esserci una cavità. Chiama i compagni di scalata, sposta il cespuglio che copriva l'apertura e buttano un sasso all'interno. Sentono il rumore della caduta dopo sei secondi e capiscono che la grotta è piuttosto profonda. Tornano con un gruppo più numeroso qualche giorno dopo e si calano all'interno per 140 metri prima di toccare il fondo della grotta grande del Vento, la prima in cui noi entriamo, che potrebbe contenere al suo interno tutto intero il duomo di Milano con tutte le sue guglie e pinnacoli. Oggi sono stati creati tredici chilometri di camminamento all'interno di queste grotte e si sta lavorando per unirle ad altre grotte scoperte nelle vicinanze già dal 1948 e realizzare un complesso di cunicoli per più di 35 chilometri.
Le visite al pubblico sono consentite dal settembre 1974 e il percorso turistico è di circa un paio di chilometri. Questo complesso è uno dei più grandi in Europa ed è dovuto alla risalita dalle profondità di acqua sulfurea lungo le fratture della roccia fino ad incontrarsi con l'acqua ricca di bicarbonato proveniente dalla falda del torrente Sentino che scorre all'esterno. Le stalattiti e le stalagmiti assumono forme curiose e variabili, di tutte le dimensioni, a costituire una sorta di museo di statue naturali veramente unico per dimensioni, grandezza e numerosità. È incredibile come cambino le percezioni della distanza e della grandezza all'interno di queste enormi grotte. Senza punti di riferimento luminosi naturali le dimensioni tendono a rimpicciolirsi. Una stalattite che pende dall'alto sembra un puntino di qualche decimetro, in realtà misura più di sette metri, un'altra stalagmite posta su una parete a metà altezza appare come una colonnina di trenta - quaranta centimetri e invece misura quasi tre metri. È un incanto passare da una grotta all'altra sui percorsi artificiali che seguono l'andamento della grotta con scalini a salire e poi a scendere, passaggi stretti, laghetti lunari sotto le passerelle, strapiombi di decine di metri sotto di noi in certi punti. A metà percorso incrociamo un gruppo di ragazzi scout che tornano da una visita speleologica nelle grotte non ancora aperte al pubblico. Sono attrezzati con stivali e baschetti con lampada incorporata, tutti sporchi di fango ma felici ed entusiasti.
La visita dura circa cento minuti, è adatta a tutte le persone di qualsiasi età e lascia dentro una specie di timbro indelebile per la unicità e la forza delle immagini naturali che propone.
Graziano ci scatta all'interno una foto di gruppo per ricordo che già all'uscita un suo collaboratore è in grado di consegnarci. Lasciamo Frasassi e il suo ambiente unico per tornare per il saluto finale da Sartarelli. Andando verso il parcheggio si passa vicino alle sorgenti sulfuree che si possono visitare, lungo il percorso del torrente Sentino. Due ragazzi stanno giocando con dei bastoncini in fondo alla scalinata in legno e terra che porta verso le sorgenti. C'è poca gente in giro stamattina.
Il commiato
Patrizio ci ha accompagnato alle grotte e in un quarto d'ora siamo di nuovo in azienda, dove Donatella, con l'aiuto di Caterina e Tommaso, ha preparato un ultimo pranzo prima di accomiatarci.
Si pranza nella sala dove ieri abbiamo fatto le due verticali. L'ambiente è riposante e l'atmosfera che si respira è quella del pranzo domenicale in famiglia con Donatella e Patrizio che fanno i padroni di casa, i figli Caterina e Tommaso che li aiutano e gli ospiti un po' imbarazzati e desiderosi di dare una mano che talvolta intralciano gli spostamenti. Si sta bene dai Sartarelli.
Hanno fatto preparare dei deliziosi cannelloni al forno, ancora caldi, per primo e poi una teglia di coniglio in porchetta e una di pollo al forno. Donatella ha pulito una scodella di insalata e pomodori e poi dei mandarini per addolcirsi la bocca. Il loro Verdicchio ha accompagnato ancora una volta il cibo messo in tavola e mi sembrava di essere nella casa vecchia del Doccio, con la nonna, la zia Teresa, Guri e Marino quando c'erano ospiti di riguardo e alla domenica si pranzava attorno al tavolo buono nella sala vicino alla cucina, la stessa aria di semplicità, la stessa accoglienza, le stesse cose buone e genuine, sapori di altri tempi.
Alle tre siamo partiti, Gabriella, Alfredo ed io. Un po' di vino nel cofano, il sole in cielo e un gran magone in gola per l'affetto verso questi due Signori che ci hanno fatto conoscere a fondo i loro posti, ci hanno coccolato e hanno aperto completamente la loro casa perché potessimo sentirci a casa nostra. Grazie Donatella e grazie Patrizio, grazie di cuore per esservi dedicati con amore e sacrificio alla cura del Vostro territorio e per avere offerto al mondo i vostri eccellenti prodotti.
Sono nato in una torre malatestiana del 1350 sulle primissime colline del Montefeltro romagnolo, massi rotolati fino all'Adriatico...
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