Trattori, concimi, fungicidi: e poi riscaldamento e raffreddamento di vasche, imballaggio, trasporto... Anche produrre vino inquina: si può fare di meglio?
Lo scenario è apocalittico. Il riscaldamento globale minaccia di distruggerci completamente, questo almeno è quello che viene raccontato. Che il clima cambi periodicamente, e questo è successo anche quando i pochi individui che abitavano il pianeta non giravano in automobile, è un fatto noto, anche se al pubblico non sempre arrivano le informazioni giuste a riguardo. Inoltre, che il pianeta sia inquinato è pure un fatto noto e sotto gli occhi di tutti. E su questo, niente da dire, se non quanto sia importante fare di meglio.
Che c'entra il vino con tutto ciò? C'entra, eccome. Anche l'industria del vino, infatti, consuma risorse e inquina l'ambiente. In un momento in cui il tema della sostenibilità ambientale delle attività umane rappresenta una delle priorità in agenda, anche la produzione del vino entra giocoforza a farne parte. Non solo: detta sostenibilità, e soprattutto la possibilità di dimostrarne l'efficacia con dati alla mano, sta diventando anche una leva di marketing sempre più importante, soprattutto perchè è in crescita il numero di consumatori che si sta dimostrando sensibile all'argomento. A questo proposito ricordiamo che la catena di supermercati britannica Tesco ha avviato un ambizioso programma di etichettatura di tutti i prodotti alimentari aventi il proprio marchio, che reca non solo informazioni sugli aspetti nutrizionali ma anche sulle emissioni di CO2, la cosiddetta "carbon footprint".
Vediamo allora alcuni aspetti, grazie all'aiuto di un'interessante speciale dedicato a questo tema e pubblicato sul numero di novembre 2007 della rivista specializzata inglese "Decanter".
A fronte di una crescita della popolazione e di una minore disponibilità di acqua, tant'è che la previsione di diversi esperti di scenari globali considera il controllo dell'acqua una possibile fonte di conflitti futuri, l'uso della risorsa idrica in agricoltura sta diventando un aspetto sempre più importante e considerato. Senza andare troppo lontano, infatti, basta ricordare le recenti siccità estive nella pianura padana, e non solo, che hanno fatto discutere sull'opportunità di operare delle riconversioni colturali. Il problema si dipana infatti attorno alla quantità di acqua utilizzata per la coltura e alla sua efficienza di utilizzo. Non solo: l'acqua risulta infatti coinvolta anche da un punto di vista indiretto, ovvero come ricettacolo di sostanze residuali da lavorazioni intermedie quali concimazione, difesa dalle avversità parassitarie e attività di cantina. In moltissime zone di produzione, comunque, la vite è ancora una coltura che richiede quantità di acqua molto limitate, o che non ne richiede affatto.
Chi di noi berrebbe con entusiasmo del vino "imbottigliato" in plastica? E chi tra i produttori di vino di alta qualità, soprattutto se appartenenti a Paesi "tradizionali", avrebbe il coraggio di mettere il proprio prodotto in un contenitore diverso dal vetro? E' un po' come usare il tappo a vite rispetto al sughero. L'approccio al problema richiederebbe una visione aperta e al di fuori dei luoghi comuni, ma soprattutto sostenuta da fatti e cifre.
Chi si è posto il problema ha compiuto delle osservazioni piuttosto interessanti, a partire dal peso delle bottiglie: mezzo chilo, vuote, è la norma. Si sostiene però che anche quelle da 400 grammi potrebbero essere parimenti robuste, portando con sé il non trascurabile effetto di far risparmiare il 20% delle emissioni. Per trasporti "a lunga gittata", per esempio vino australiano da esportare in UK, è stata individuata, come soluzione ancora più rispettosa per l'ambiente, l'imbottigliamento in loco di vino trasportato in cisterna. Trasportare bottiglie in bancali o in casse, infatti, significa trasportare oltre al prodotto un contenitore di vetro, che ha un suo peso, nonché avere una occupazione degli spazi non proprio ottimale. Bag-in-box e contenitori in Tetra Pak e PET, nonché le nuovissime "pouch" - contenitori rigidi in plastica e alluminio -, offrono soluzioni alternative leggere, efficientemente impaccabili e igieniche. Poco entusiasmanti? Sicuro, ma bisogna ricordare che queste soluzioni vengono adottate per vini da consumo rapido, non certo per vini di grande pregio.
Dopo aver dissertato a lungo sui pregi, ma anche sui limiti delle chiusure in sughero - leggi difetto di tappo -, e dopo averle quindi messe ferocemente in discussione proponendo altri sistemi di chiusura - vedi sintetico e screwcap -, salvo poi rimettere nuovamente tutto in discussione di fronte ai vantaggi forniti dallo scambio di ossigeno tra vino e ambiente esterno assicurati dal sughero, il dibattito si è ora spostato sulla sostenibilità ambientale della produzione del sistema di chiusura. Secondo alcuni si tratterebbe di una manovra delle aziende specializzate nel sughero per ridare smalto al proprio prodotto, creando un diversivo positivo all'aspetto critico del sughero, ovvero il problema del TCA. Comunque sia, alcuni studi comparativi sulle emissioni derivanti dai processi produttivi darebbero ragione a una migliore sostenibilità ambientale della produzione del sughero, nettamente in vantaggio rispetto alla screwcap, perfino se ottenuta in gran parte da alluminio riciclato. Amorim, l'azienda portoghese leader mondiale nella produzione di tappi in sughero, ha altre frecce al proprio arco a favore dell'ambiente: le foreste di querce da sughero hanno un impatto positivo nel bilancio dell'anidride carbonica grazie all'attività fotosintetica delle piante; il sughero stesso è in grado di trattenere anidride carbonica al proprio interno; inoltre, Amorim utilizza nel proprio processo produttivo fino a quasi il 50% di energia ottenuta da biomassa vegetale e predilige il trasporto via mare, quando possibile ovviamente, del proprio prodotto. Certo, da qui a concludere che per amore dell'ambiente il consumatore debba essere in grado di accettare con il sorriso sulle labbra una bottiglia che sa di tappo ce ne passa...
Anche se l'industria del vino non è certo la maggior responsabile dell'inquinamento del pianeta, l'impatto esiste: la stessa fermentazione alcolica del resto, produce non solo alcol etilico ma anche anidride carbonica, quest'ultima risultante anche dalla lavorazione dei vigneti, dal trasporto del prodotto, e da tutte le operazioni che consumano energia durante il processo produttivo. Va da sé, ovviamente, che chi più produce più inquina. Il problema è stato affrontato da alcune "winery", una decina delle quali - situate in Nuova Zelanda, come Grove Mill, Sudafrica, come Backsberg, e California - può vantare lo status di "carbon neutral", ovvero tanto emetto, tanto faccio in modo di rimuovere. La cosa migliore sarebbe attrezzarsi in modo da emettere il meno possibile: in alternativa, vanno bene sia il riciclaggio degli scarti di lavorazione che l'uso di fonti rinnovabili. Per avere comunque sicuri di avere un bel segno meno nel computo dell'anidride carbonica presente in atmosfera, un sistema che funziona molto bene consiste nel piantare alberi, che è ciò che le winery suddette hanno fatto.
Ma tutti questi discorsi buoni e giusti, quanto vanno a influenzare la qualità finale del vino? Difficile rispondere. E' però più facile rendersi conto che tutte queste attenzioni che mirano a rendere più "soft" l'impatto del processo produttivo nei confronti dell'ambiente hanno sicuramente una ricaduta economica: insomma, la loro implementazione ha un costo. C'è però da aspettarsi che, vuoi per seguire una moda, vuoi per convinzioni di tipo etico, le vendite di questi vini siano destinate ad aumentare.
Sono nato nel 1967 a Milano e fino a qualche anno fa ho fatto il tecnico informatico: dopo una quindicina d'anni davanti a un monitor ho cominciato...
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