Registrati!

hai dimenticato la password?

Inserisci il tuo indirizzo e-mail e premi invia.

ricerca avanzata

cerca in
Pubblicità
Home > Autori > Vino > Mondo Vino

Mondo Vino

Storia di ordinaria grandeur

di Riccardo Modesti

MappaArticolo georeferenziato

I francesi sono sempre i più credibili sul panorama vitivinicolo mondiale perché, piaccia o meno, hanno sempre in mano gli "atout" migliori: anche nella cattiva sorte.

"...perché il vino di Lombardia non ha ormai nulla da invidiare a quello dei nostri cugini francesi: loro, semmai, sono più bravi di noi nel farlo conoscere e nel venderlo...": come apertura vi ho proposto la frase che non manca mai negli interventi pubblici - ovviamente quando si parla di vino, questo è scontato - dell'Assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia, nonché Vicepresidente della stessa, Viviana Beccalossi - politico di scuderia AN che presumo sarà presto "sparato" sulla scena nazionale, per cui chi non la conoscesse ancora pazienti un poco -. Il virgolettato che vi ho riportato, forse non accuratissimo nella trascrizione letterale ma preciso nel senso, ci introduce all'argomento di questa tornata. Tranquilli, non parleremo di vini di Lombardia, ovviamente, ma dei cugini francesi e di un paio di storie relative a due dei loro tre miti vitivinicoli portanti. Parleremo infatti di Borgogna e Bordeaux, mettendo insieme del materiale pubblicato da "La Revue du Vin de France", testata che secondo me parla di vino come nessun'altra al mondo, e da "Decanter", testata altrettanto valida anche se a mio parere un gradino sotto quella dei cugini d'Oltralpe.
Tratteremo dunque dapprima di una misteriosa epidemia di "ossidazione" in vini bianchi di Borgogna neppure molto vecchiotti: a seguire, invece, compieremo un excursus sui cru classé del Médoc, attraverso anche la loro storia... "catastale".


Bianchi da invecchiamento

Quando si parla di vini bianchi da invecchiamento la mente corre subito ai grandi vini di Borgogna prodotti in alcuni vigneti della Côte d'Or - bellissimo lo Charlemagne a Corton - e di Chablis: ottenuti esclusivamente da uve Chardonnay, oltre a continuare a rappresentare uno degli archetipi dell'ormai ubiquitario vitigno a bacca bianca, sono vini per i quali un adeguato invecchiamento viene considerato necessario per armonizzarne il carattere giovanile alquanto scontroso. Assaggiare infatti uno Chardonnay borgognone nei suoi primi mesi di vita può tramutarsi in un'esperienza davvero spiacevole: va da sé, quindi, che chi ha la pazienza di attendere, o chi può permettersi di pagare chi ha avuto pazienza in sua vece - in entrambi i casi si tratta comunque di consumatori "evoluti" che hanno sviluppato una cultura per i vini bianchi invecchiati, fatto non così diffuso o scontato -, viene ampiamente ricompensato nella maggior parte dei casi con un'esperienza sensoriale emozionante. In senso positivo si intende, voglio dire, l'emozione. Il rischio, tuttavia, esiste, e anche per una bottiglia ben conservata qualcosa può andare storto. Ed è ben quello che sta succedendo con una frequenza sempre più elevata, con rispetto particolare ad alcune annate dell'ultimo decennio del secolo precedente. Deve essere davvero molta la delusione nello stappare una bottiglia, magari costata molte banconote da dieci euro e riscontrare, con raccapriccio, la "morte" anticipata del vino lungamente agognato.


Tutti d'accordo: così non va...


Vini ossidati, dunque, perché invecchiati precocemente. Di questo problema hanno parlato, a sei mesi di distanza l'uno dall'altra, sia "La Revue du vin de France" che "Decanter", con articoli che hanno tentato di studiare il problema da diverse angolazioni e di trovare delle risposte plausibili a tali fenomeni. Entrambe le testate hanno dunque tirato in ballo analisi retrospettive delle vendemmie, possibili incidenti di cantina nonché ulteriori cause impreviste e imprevedibili: entrambe sono giunte più o meno alle stesse conclusioni, con sovrapposizioni forse anche un po' imbarazzanti. Le annate su cui è stato puntato l'obiettivo sono state in particolare quelle comprese tra il 1995 e il 1999: sebbene entrambi gli articoli non riportino ovviamente dati statistici tangibili alla fallanza, ma solo un pugno di impressioni, esperienze dirette e voci di corridoio, ciò che si è evidenziato con chiarezza è stato che il problema ha colpito indifferentemente sia le maison più importanti che quelle meno significative.
Tenendo presente che entrambe le testate hanno svolto le loro considerazioni girando attorno a tre temi portanti - la maggior vulnerabilità dei vini nella loro conservazione rispetto al passato, l'uso della SO2 - anidride solforosa - e l'efficienza delle chiusure, il punto di partenza e lo stile di approccio utilizzato è stato decisamente differente: così, se "La Revue" - articolo di Olivier Poels - ha preferito un'articolazione del problema più elaborata scegliendo toni e cadenze tanto moderate quanto ferme nella critica, "Decanter" ha deciso invece di aprire l'articolo - firmato da Clive Coates - con uno stile un po' più scanzonato ma anche ferocemente denigratorio, mettendo in burla la questione attraverso la colorita descrizione di una serie di esperienze dirette di deludenti aperture di prezioso nettare proveniente dalla Côte d'Or.
"La Revue", inoltre, non ha risparmiato una critica feroce sia nei confronti dei produttori che del Bivb - l'organizzazione interprofessionale locale - per aver negato a lungo l'esistenza di un problema attorno al quale la discussione stava montando da tempo, riconoscendo comunque un plauso alla stessa Bivb per aver recentemente avviato uno studio conoscitivo sulla questione.


"Pazienza, Luke, ci vuole pazienza..."

Perché vini più vulnerabili e meno resistenti al tempo? Secondo "La Revue" tutto sarebbe partito dall'abitudine sempre meno diffusa nel bere vini bianchi invecchiati: "Anche se si trovano ancora alcuni irriducibili amatori che mettono il loro vino in cantina per farlo invecchiare - scrive -, l'immensa maggioranza consuma il vino immediatamente. Le nuove generazioni di consumatori, ma anche di vignaioli, hanno totalmente perso il gusto e la cultura del vino bianco 'vecchio'". Da ciò si comprende bene come, in assenza di un mercato significativo per i vini bianchi lungamente affinati, si punti dalla parte opposta: e via, allora, a pratiche di cantina atte a rendere i vini più ricchi - qui c'entra di più forse l'ambizione di fare Chardonnay "all'australiana" -, più morbidi e godibili in tempi più brevi, come l'affinamento sulle fecce fini in barrique che se da un lato arricchisce il vino, dall'altro "lo espone maggiormente all'ossigeno... molte aziende in Borgogna aborriscono questa tecnica" - scrive "Decanter" - o "se mal gestita arricchisce il vino di note pesanti ed evolute" - osserva "La Revue" -. A dirla tutta, non è che mi convinca molto questa analisi: ma chi sono io, in fondo, per contestare tali qualificati punti di vista?


Tanti motivi, un solo danno

Clive Coates ha però analizzato anche le vendemmie, osservando che né il 1997 né tantomeno il 1998 fossero state annate da strapparsi i capelli per la gioia: un discorso a parte ha meritato il 1996 che, sebbene di buon livello, ha avuto come decorso, causa il freddo, un innesco mediamente tardivo delle fermentazione malolattiche e, a ruota, di un ritardo nella protezione del vino con la SO2. Tali vini, dunque, a causa di un'esposizione più prolungata all'ossigeno senza la copertura del prezioso coadiuvante, potrebbero aver subito un'ossidazione eccessiva.
Anche i tappi di sughero, tuttavia, sono finiti sul banco degli imputati: entrambi gli articoli non hanno lesinato infatti critiche alla discussa chiusura, sottolineandone una qualità media sempre più bassa e sempre più in calo. Entrambi gli articoli, peraltro, si focalizzano giustamente sul danno devastante che un cattivo sughero può infliggere a vini imbottigliati con dosi basse di SO2, come accade sempre più spesso in virtù di scelte operate da produttori che intendono proporre un vino più "sano": oltre al danno, dunque, si aggiunge una beffa che sta facendo riflettere più di una maison sull'opportunità di tentare la carta della "screwcap".


Cru classé vs terroir

Cambiamo scenario e passiamo al vigneto bordolese che, come è noto, prevede dal 1855 nelle sue zone più prestigiose una classificazione gerarchica: ciò che forse è meno noto è che tale classificazioni fosse in essere già da molto tempo prima che essa venisse "santificata" in qualità sia di ausilio alla commercializzazione dei vini ottenuti che come fattore di calcolo delle imposte sui redditi dei fortunati proprietari. Furono inoltre diverse, tra il 1745 e il 1855, le classificazioni basate sui prezzi di vendita che nacquero dall'iniziativa di "courtier" e "négociant", i cosiddetti mercuriali. Quindi, così oggi come allora, la classificazione non stila necessariamente una graduatoria qualitativa di "terroir", quanto piuttosto una graduatoria commerciale certa o, per esprimerla con le parole di oggi, di marca. Ritorneremo in seguito su questo punto importante. Quello che però una statica graduatoria sulla carta, per quanto autorevole, non racconta, è la storia di questi appezzamenti così preziosi e unici.


Rovistando al catasto

Di questo tema se ne è occupata la "Revue" in un suo articolo davvero magistrale per originalità, il cui punto di partenza è stato il polveroso catasto Napoleonico e le sue delicate carte tracciate con la piuma d'oca, materiale ancora conservato in quel di Bordeaux per quel che attiene alla Gironda. Tale catasto è stato utilizzato fino all'inizio del Novecento, per poi essere sostituito da quello attualmente in vigore. Va da sé che, ricercando con attenzione, è quindi possibile ricostruire quasi due secoli di storia e di vicende, segnate da contrazioni, espansioni e accorpamenti di superfici, di Château più o meno prestigiosi.
Si è dunque scoperto che all'inizio dell'Ottocento la proprietà terriera era estremamente frammentata su un numero considerevole di piccole parcelle, mentre le grandi estensioni erano piuttosto un'eccezione, contrariamente a oggi: un esempio riportato riguarda Château Lascombes, che nel 1826 si estendeva su un'ottantina di parcelle per un totale di 7.2 ettari.
Non mancarono peraltro le compravendite fondiarie mirate all'accorpamento di parcelle per dare unità e maggiore estensione al vigneto: Louis-Gaspard d'Estournel, nel tentativo di creare un vigneto con un unico proprietario - l'attuale Cos d'Estournel -, si diede un gran daffare tra il 1820 e il 1848 realizzando un'ottantina di compravendite; Château Lafite è passato dai 74 ettari di un secolo e mezzo fa agli attuali 103; Château Latour, nello stesso lasso di tempo, è passato da 55 a 78; meno vistosa, invece, l'espansione di Château Margaux, da 80 a 87 ettari.


Una storia particolare

Ma se un cru è davvero tale, ovvero un vigneto aventi caratteristiche di particolare pregio, perché dovrebbe espandersi a fisarmonica? Come spiegato in precedenza, la classificazione dei cru del Médoc - diversamente da quella di Saint-Émilion - non fa riferimento al fatto che Château Margaux abbia terreni più o meno drenanti o che Château Latour abbia un grado in più o in meno nel vigneto alle quattro del pomeriggio: si tratta solo di una questione di prezzo del vino che, stante ovviamente una qualità del prodotto degna sia della posizione nella classificazione che del prezzo spuntato, non sottende necessariamente al fatto che il vigneto da cui è prodotto non cambi nel tempo. Vi ricordate del precedentemente citato Château Lascombes e dei suoi 7.2 ettari del 1826? Oggi siamo addirittura a 84, ma negli anni Sessanta sono stati anche 110. Stupefacente, poi, è la storia di Château Desmirail, 3eme cru: per alcune decine di anni infatti, a causa di una spartizione di eredità, Desmirail è stato uno Château senza vigneti senza tuttavia perdere il suo rango nella classificazione. Attenzione, però: se è vero che molti Château si sono "allargati" nel tempo, è pure vero che molti di essi non hanno pressoché modificato la propria estensione; inoltre, molte di queste ultime hanno condotto alla nascita dei cosiddetti "secondi vini", il cui obiettivo è fungere da ricaduta delle selezioni effettuate per i "grand vin" costituendo però un prodotto comunque valido e a un prezzo accettabile.


Lieto fine

Per chiudere ritorniamo in Borgogna e alle considerazioni finali degli articoli sullo strano caso dei vini ossidati: nonostante gli strali e le accuse, infatti, l'ottimismo rimane comunque imperante e la qualità del prodotto ben al di sopra di ogni critica e di ogni sospetto. E anche se "Decanter" accenni al fatto che un simile problema stia colpendo altre realtà di punta della vitivinicoltura mondiale, ma "senza che i prezzi ne abbiano risentito negativamente", Clive Coates ci invita addirittura a rilassarci e ricordarci, se ce ne fosse bisogno, che "potete ancora acquistare con fiducia Borgogna bianchi di alta qualità". Buona fortuna!

Letto 5463 voltePermalink[0] commenti

0 Commenti

Inserisci commento

Per inserire commenti è necessario essere registrati ed aver eseguito il login.

Se non sei ancora registrato, clicca qui.
PUBBLICITÀ

Riccardo Modesti

Riccardo Modesti

 Sito web
 e-mail

Sono nato nel 1967 a Milano e fino a qualche anno fa ho fatto il tecnico informatico: dopo una quindicina d'anni davanti a un monitor ho cominciato...

Leggi tutto...

Archivio Risorse Interagisci

 feed rss area vino

PUBBLICITÀ

Ultimi Commenti