Il Castelmagno é uno dei maggiori protagonisti della scena casearia nazionale, possiamo definirlo un formaggio nobile, di sangue blu appunto, tanta è l’importanza che ancora oggi ha sulla tavola degli italiani e non solo. I primi cenni storici, riportati da Galaverna in “Storia di Castelmagno” risalgono a scritti di poco più della metà del 1200 dove viene riportato l’utilizzo del formaggio come unità di scambio e pagamento per l’uso di alcuni pascoli del Marchese di Saluzzo: Una forma era pari a “denarios duodecim”. Successivamente, intorno al 1700 veniva fatto obbligo alla comunità del Feudo di Castelmagno di fornire reddito oltre che con soldi con la “regalia di rubbi nove di formaggio” .
La fama del Castelmagno era già diffusa nell’800, lo testimonia la sua presenza sulle più prestigiose tavole d’Europa, ed indiscussa fino ad oggi considerate le richieste che da qualche decennio provengono da oltreoceano. Alla diffusione di questa fama, ha anche contribuito l’orgoglio dei produttori tramandato da generazioni; si racconta che fino a qualche decennio fa i figli dei malgari portavano a scuola una piccola forma ricavata in una fascera per bimbi come omaggio ai propri compagni. Sembra inoltre che fino almeno a metà degli anni ‘70 sia stata conservata territorialmente l’usanza di riconoscerlo come “moneta di scambio” fra alcuni produttori e dettaglianti per rifornirsi di alimenti per l’inverno.
Ma per capire la nobiltà di tale formaggio, è necessario conoscerlo “a fondo” per eseguirne il corretto ritratto. Interessanti ed inedite notizie si possono attingere da un trattato su “Il Formaggio di Castelmagno” del Prof. Dott. Cav. Uff. Carlo Remondino antecedente al 1922 ritrovato nel 1976 durante il trasloco del municipio del paese.
Lo scritto è stato ristampato dall’Onaf nel 2004 grazie a Gianni De Matteis per anni Sindaco di Castelmagno, giornalista, Presidente del Centro di Cultura Occitano e socio Onaf con la tessera n°1.
Dal testo si possono attingere molte notizie che aiutano a delineare il carattere del nostro formaggio, ad iniziare dal fondamentale legame fra territorio persone e animali.
La zona di produzione odierna abbraccia il comune di Castelmagno, Pradvles, Monterosso Grana in provincia di Cuneo, nel testo di allora sono più precisamente citate le Frazioni di Pradvles, Foresto e Pentenera a circa 900 m di altitudine e viene riportato il punto più elevato dove il formaggio veniva prodotto, a oltre 2600 mt.
Fra i 1300 e i 1800 metri vi sono invece, le frazioni di Campomolino, Valliera, Narbona, Chiotti, Chiappi.
L'estensione della zona di produzione era poco più di 5000 ettari, di cui circa 4700 sono coltivati e curati a prato, pascoli e bosco, e le culture scelte per ottenere una altissima percentuale di foraggio che era di circa 20000 q.li solo di fieno.
Gli animali che fornivano latte erano al 90% di specie Vaccina usati solo per la fornitura del latte, vista la conformazione orologica del territorio, e integrato da latte ovino e caprino .
La produzione di Castelmagno, solo nell'omonimo comune coinvolgeva circa 200 famiglie ed un totale di 8000 forme da kg 6 circa.
Per realizzarle era necessario circa 1000000 di litri di latte che con una resa del 5% portava ad un totale di circa 480 – 500 quintali medi di Formaggio prodotti nel solo comune di Castelmagno. Nei vicini comuni di Pradvles e Monterosso veniva prodotto anche burro.
La quantità di produzione del Castelmagno era estremamente varia, alcune famiglie che possedevano un paio di vacche o solo una, dovevano mettere assieme il latte anche di 3 o 4 giorni per realizzare una forma di 5 kg, per la quale ne occorrevano dai 75 agli 80 litri, ovvero la produzione giornaliera di parecchie vacche.
Quando il formaggio era prodotto dalle piccole famiglie veniva prodotta una forma ogni 2 o 3 giorni secondo le stagioni, i più piccoli producevano solo 15 - 16 forme all’anno.
Nel caso si procedeva per ottenere delle piccole quantità di cagliata che venivano conservate nel latticello ed unite quando il quantitativo permetteva la realizzazione della forma.
Il metodo di lavorazione, in ogni caso, consisteva nel mettere il latte della mungitura serale in recipienti che all’epoca erano mastelli di legno, secchi di zinco o bacinelle di terracotta e conservarlo fino al mattino successivo. Veniva quindi riscaldato ed unito al latte della mungitura mattutina, quindi aggiunto di caglio liquido o in polvere, o altro agente coagulante a volte prodotto dalla famiglia stessa. L’aggiunta di caglio era il primo di una serie di elementi che contribuivano a differenziare il prodotto finale, migliore veniva ritenuto il caglio in pasta o in povere ricavato da agnello e capretto.
La cagliata veniva in seguito rotta finemente con un mestolo, poco dopo posta in una reticella e pressata a mano al fine di ottenere una abbondante fuoriuscita di siero, veniva quindi appesa per circa 24 ore e poi fatta riposare in un recipiente per circa 3 giorni. Dopo questo periodo, la pasta veniva ripresa, rimescolata a mano, messa in una reticella con l’aggiunta nel centro di una manciata di sale, quindi inserita nelle forme e pressata prima con le mani in seguito con pesi.
Nelle forme restava da 12 ore a 6 giorni prima di essere estratta, salata sulle due facce, rivoltata periodicamente e risalata ogni 2 giorni circa fino al raggiungimento della giusta consistenza che avveniva dopo circa 30 gg. In questo momento si procedeva alla foratura delle forme con ferri da maglia in modo che si potesse sviluppare l’erborinatura, che pare avesse un migliore sviluppo se vi era una buona percentuale di latte caprino.
La salatura e il lavaggio periodico della crosta erano sempre eseguiti anche se con intervalli maggiori, il formaggio era pronto dai 3 ai 6 mesi, i formaggi che avevano l’erborinatura erano meglio pagati e il prezzo regolato su quello del Gorgonzola.
In commercio il Castelmagno si divideva in due categorie il dolce e il forte:
Il dolce aveva pasta chiara a volte erborinata, il forte era giallo intenso e, a volte aveva un sapore molto pizzicante.
Oggi, la tecnica di produzione può ritenersi fedelissima alla tradizione, chiaramente è coadiuvata da alcune innovazioni che permettono di ottenere un prodotto che rispetta le attuali normative e garantisce qualità produttiva costante di elevato livello, riconosciuti con il Dpr del 16.12.1982, dalla Dop, Reg. CEE 1263 del 02/07/1996, e regolati dal disciplinare contenuto nel B.U. 13 del 31.03.2005, da cui parte delle notizie qui citate sono estratte, ed eventuali successivi aggiornamenti.
Il prodotto, può fregiarsi della denominazione di “Castelmagno prodotto della Montagna” e della menzione aggiuntiva “ di Alpeggio” a patto che il latte provenga da capi Vaccini, Ovini e Caprini siti in pascolo alpino nel periodo da inizio maggio a fine ottobre e la caseificazione eseguita in malga in locali idonei. Il formaggio è ricavato da latte vaccino crudo con aggiunta di caprino e ovino, lavorato alla temperatura di 30 - 38°c a cui viene aggiunto caglio liquido di vitello con la percentuale minima di chimosina fissata al 70%.
La coagulazione avviene in 30 – 90’ e la rottura alla grandezza del chicco di nocciola e conservata nella “laità” il siero così chiamato localmente, fino al naturale deposito sul fondo della caldaia. La cagliata viene di seguito estratta con il telo detto "risola", pressata leggermente a mano e appesa o lasciata a sgrondare a raffreddare su un tavolo sgrondatolo inclinato per un minimo di 18 ore.
Viene di seguito inserita in recipienti (consentito l’uso del legno) in immersione di siero per favorirne le fermentazioni tipiche che caratterizzano il formaggio.
Dopo 2 – 4 giorni la pasta viene estratta, tritata, spesso con l’uso di un attrezzo molto simile ad un tritacarne, rimescolata, salata e posta nelle fascelle, che sulla base recano il marchio di origine, quì viene prima pressata a mano, poi con un torchio Inglese. La salatura avviene a secco sulle facce nelle successive 48 ore.
La stagionatura deve avere un minimo varia da 60 gg. a 5 mesi alla temperatura compresa fra 5 e 15°c e umidità fra il 70 e il 98%.
Secondo tradizione la migliore stagionatura si ottiene nelle frazioni montane di Castelmagno rivolte verso Cima Parvo o nelle cantine di vallata di Caraglio.
Si ottiene un formaggio a pasta semidura, semigrasso, di forma cilindrica, peso variabile dai 2 ai 7 kg. facce piane, di diametro 15 – 25 cm e scalzo dritto di 12 – 20 cm con il marchio di origine impresso su una faccia.
Il marchio di origine rappresenta una “C” stilizzata con nella parte alta delle montagne e in basso una forma di formaggio tagliata. Sopra il tutto viene apposta una etichetta di carta fustellata detta sventolina a forma di elica che ripete il marchio di origine: per le forme prodotte in montagna la scritta sarà in campo blù per quelle d’alpeggio in campo verde muschio.
La crosta non edibile è liscia, di colore giallo e con la stagionatura assume sfumature prima rossastre in seguito scure. La pasta, assolutamente priva di occhiature, è di colore bianco perla nei prodotti giovani e giallo paglierino intenso negli stagionati, in alcune forme può ancora essere presente una vena di erborinatura che si sviluppa spontaneamente senza aggiunta di muffe.
La struttura è friabile e diventa compatta con la stagionatura, pur mantenendo una tendenza alla rottura. I profumi ricordano il fieno, con delicate note di complessità che variano in relazione a forma e stagionatura. Il sapore, presenta leggere note acidule che ricordano il siero, tendenza dolce e a volte un finale “ammandorlato” appena percettibile, tipico dei formaggi cuneesi. Gli aromi in alcune forme possono far ricordare sentori di alpeggio dimostrando il profondo legame territoriale.
Il formaggio ha la struttura granulosa, di tessitura fine, induce una media succulenza ed ha una ottima persistenza gusto – olfattiva.
Il Castelmagno è ovviamente presente in alcuni piatti tipici che la fama del formaggio ha portato fuori dai confini locali, fra essi, gli gnocchi col Castelmagno, viene usato sopra la polenta abbrustolita, ed è stato fra i primi prodotti che è stato abbinato a mieli; da quello di castagno, a quello di acacia o erbe aromatiche, compresi gli aromatizzati al tartufo, composte a base di nocciole o frutti di bosco ed infine a gelatine di vini rossi e passiti.
Il vino dipende chiaramente dalla forma che abbiamo a disposizione e può essere per usare degli abbinamenti classici un nebbiolo e i grandi vini che da esso derivano come Barolo, Barbaresco, Gattinara...
Personalmente ho abbinato ad un Castelmagno stagionato oltre 6 mesi un Boca 2005 prodotto nel Novarese a base di Nebbiolo all’85% e Vespolina.
Su un prodotto con marcata erborinatura, é consigliabile un vino passito, che può essere un Picolit dei Colli Orientali del Friuli, un Caluso Passito o un Sauternes giovane.
Tempo fa ho provato con amici il primo abbinamento assieme a qualche nocciola Piemontese e posso consigliarvi…di limitare il numero degli invitati per riuscire a degustarne tutti.
(Foto dell'autore)
Riferimenti:
1) http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2005/13/siste/00000002.htm
2) http://www.ismea.it/flex/AppData/Redational/Normative/D.05bc47e0c5f0c40bc6a0/C50b64_DD_13_01_06.pdf
Per approfondire la mia passione e le mie conoscenze, nei primi anni ’90 ho seguito il corso e conseguito la qualifica di Assaggiatore di Vino...
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