Ogni uomo ha la propria visione su ciò che è meglio fare o su cosa meriti maggior attenzione. Prendiamo ad esempio Catone il censore, figlio di contadini, fedele alla terra (nonostante le numerose cariche pubbliche) ed accanito sostenitore della proprietà fondiaria da lui ritenuta unica possibilità di ricchezza accettabile contrapposta ai guadagni provenienti da commercio o quant’altro.
Scrisse un trattato il “De agri colture” dove elencava: oltre obblighi e doveri di schiavi e fattori verso il padrone, anche i segreti della coltivazione della vite. Diversamente da Catone, Cicerone considerava poco redditizio investire in vigneti, tanto che pronosticava sventure a chi privilegiava le vigne ai boschi, per il semplice motivo che il legname, ricchezza del bosco, poteva essere facilmente venduto anche in caso di crisi economica, non così il vino.
All’epoca infatti tale bevanda era considerata un lusso per ciò soggetto a differenziazioni dei prezzi e dunque poco sicura. L’eruzione del 79 d.C. che cancellò Pompei parve dargli ragione.
La produzione del vino si perse ed il prezzo andò alle stelle, conseguenza logica: lo smantellamento dei vigneti e la conversione produttiva agricola in grano.
Columella nel suo “De re rustica” sosteneva, quasi a bilanciare le altrui motivazioni, che soltanto chi avesse avuto le giuste conoscenze e capacità avrebbe trovato profitto e beneficio dalla viticoltura.
Richiamo evidente il suo a non improvvisarsi viticoltori per moda, moda che peraltro decadde in Roma intorno al III secolo d.C. in conseguenza di un editto che poneva pesanti obblighi per gli addetti alla viticoltura.
Questi dovevano, infatti, distribuire gran parte del vino da loro prodotto ai poveri ed ai soldati.
In Roma imperiale e repubblicana il vino nella alimentazione quotidiana era presente già dal mattino poiché la prima colazione (jentaculum) consisteva per lo più in un pezzo di pane inzuppato nel vino. Era inoltre di uso comune adulterare i vini mischiandoli con altri prodotti quali: l’acqua (soprattutto marina), erbe (che spesso davano effetti narcotizzanti), e miele in abbondante quantità. Il bere schietto in Roma, così come in Grecia, non era in uso anzi, chi beveva vino al naturale era considerato al pari di un degenerato o comunque soggetto alla pazzia. Cambiano i tempi…cambiano i gusti.
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