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Vini dal centro sud

DiVino Sannio

di Ugo Baldassarre

MappaArticolo georeferenziato

E' da un po' di tempo che avevo in animo di raccontare di nuovo e diffusamente di un fenomeno particolare in atto nella provincia di Benevento, e che emblematicamente rappresenta il cambiamento di un'intera regione. Si pensi solo, a proposito del discorso che sto per intraprendere, che la provincia sannita rappresenta da sola più del 40 per cento della produzione campana. E oggi quest'area è oggetto di un drastico cambiamento, della più evidente metamorfosi della vecchia viticoltura massiva del Sud che, grazie alla nuova scienza vitienologica, ha portato in poco tempo - da 20 anni, ma con accelerazioni esponenziali negli ultimi 6/8 anni - a trasformare completamente il panorama locale. Qui la vitivinicoltura ha dovuto compiere, in certi casi suo malgrado a causa della resistenza, della riottosità dei coltivatori, un'evoluzione in certo senso impressionante, tanto essa è stata rapida e radicale.

Cominciamo dagli impianti: le vecchie raggiere, le pergole e i pesanti tendoni sono ormai una netta minoranza e, soprattutto nell'area a maggior vocazione, quella che come un semicerchio lambisce il pendio a settentrione del Monte Taburno, oggi è davvero un bel vedere di guyot, cordoni e cortine di ogni genere. Paesi come Sant'Agata de' Goti, Paupisi, Ponte e Torrecuso, in tema di vino e vinificazione rappresentano ormai gli apostrofi assoluti sulla parola qualità. Anche i dirimpettai Guardia Sanframondi e Castelvenere - quest'ultimo ostinato a trarre un vanto dall'essere in assoluto il paese più vitato d'Italia - seppur rientranti in doc diverse dal Taburno, appartengono a pieno titolo alla nuova elite enologica.
Questa trasformazione, a sua volta, è scaturita principalmente dalla nascita di numerosi "nuovi" produttori che, affrancati dalla necessità del conferimento alle cantine sociali, hanno scelto di affrontare l'avventura imprenditoriale in prima persona, dismettendo e reimpiantando le vigne avite. Ho adoperato il termine "nuovi" con le virgolette, in quanto molto spesso si tratta di discendenti di coltivatori e conferitori di terza, quarta o anche quinta generazione, la cui progenie passione è stata tramandata al termine di storie ultrasecolari.

E' questa, ad esempio, la condizione della giovane azienda Torre Varano di Torrecuso che, pur traendo appunto origini ai primi anni del secolo scorso, solo da pochi anni, a partire dalla vendemmia 2003, ha iniziato a produrre ed imbottigliare in proprio. La qualità dei vini prodotti dall'azienda guidata da Nicola D'Occhio è già decisamente soddisfacente e la gamma dei prodotti, concepiti con l'ausilio del bravo enologo Sergio Romano, comprende ben sette etichette, tutte derivazioni di falanghina o di aglianico. Tra tutti voglio citarne almeno due: il Rosato di Aglianico e la Riserva di Aglianico "36+6". Il primo è un rosato affascinante, sin dalla tinta brillante e luminosa, di un color cerasuolo quasi scolastico, con bei profumi di ciliegia e rosa canina; alla bocca sorprende per il tessuto, inusuale per un rosé, in cui si bilanciano bene freschezza e morbidezza. L'Aglianico del Taburno "36+6", come può indicare il nome, è un vino dalla lunghissima maturazione in legno, 36 mesi appunto, cui fa seguito l'affinamento di sei mesi in bottiglia. Il risultato è un vino di spessore, dinamico e potente, in cui spicca la nota acida, che fa pensare ad un futuro ancora molto lungo. Gustoso il finale, in cui comunque emergono tannini ancora piuttosto nerboruti.


La sfida al Taurasi parte dal Taburno


Sempre in quel di Torrecuso, nel cui circondario secondo molti si annidano le più belle vigne del Sannio tutto, hanno sede due aziende ormai più che affermate e che condividono anche l'impostazione enologica, frutto della stessa fortunata e sapiente mano di Angelo Pizzi. Mi riferisco a Fontanavecchia e Fattoria La Rivolta, due splendide realtà i cui cru di aglianico, rispettivamente il Grave Mora e il Terra di Rivolta, si sono ritrovati a confronto nella splendida degustazione organizzata da Luciano Pignataro e guidata con maestria da Vittorio Guerrazzi il 26 maggio a Vitigno Italia. A completare il trittico di Aglianico del Taburno, annata 2003, un altro pezzo da novanta: il Bue Apis di Cantine del Taburno. Tre grandissimi esempi, figli di quell'aglianico di terra sannita che fino a qualche anno fa nessuno si sarebbe neanche sognato di contrapporre al nobile Aglianico d'Irpinia, quello con cui, per intenderci, si fa il Taurasi. E invece, nel laboratorio di Vitigno Italia i tre gran signori del beneventano non solo hanno retto il confronto con i tre cugini docg, rispettivamente il Le Surte 2003 di Macchialupa, il Santa Vara 2003 di La Molara ed il Taurasi 2003 di Villa Raiano, ma si sono fatti decisamente preferire quanto ad espressività, carattere e rispondenza tipologica. Personalmente, sono rimasto davvero impressionato per la freschezza e per l'impatto gustativo - un po' meno per il bouquet, lievemente sopito - dell'esemplare prodotto da Paolo Cotroneo, l'appassionato titolare di Fattoria La Rivolta, di gran nerbo e fragranza gustativa, elegante nei suoi tannini setosi, imperioso nel possente finale di bocca.
E, dalla stessa mano di Angelo Pizzi e dagli stessi luoghi in Torrecuso, non posso non pensare all'analogo aglianico di Torre dei Chiusi di Domenico Pulcino, in particolar modo alle splendide Riserve e all'Igt Beneventano Auriculus, almeno a memoria dato che è un po' di tempo che non mi imbatto in una bottiglia.

Non lontano da Torrecuso, nel piccolo comune di Paupisi, ha sede l'azienda Torre del Pagus, un'azienda che era ormai assurta al rango dei grandi del Sannio allorquando, nella tragica notte di San Giovanni dello scorso anno, il suo titolare, il giovanissimo enologo Luigi Rapuano si spegneva a seguito di un tremendo incidente stradale. Sempre a Vitigno Italia, quest'anno ho avuto modo di riassaggiare la sua creatura più riuscita, quell'Impeto Aglianico Beneventano Igt già balzato agli onori delle cronache per i riconoscimenti ottenuti. Semmai un vino porta con sé l'impronta, il carattere, la forza di colui che l'ha voluto, in certo senso plasmato, quel vino è certamente l'Impeto di Luigi: ha la sua forza decisa, la sua passione, ma anche la gentilezza e la cortesia con cui sapeva offrirlo. Nelle pieghe dei suoi aromi penetranti ed intensi di mora e di viola, nel meraviglioso dondolarsi al palato, sempre nuovo e rinnovato in un incessante valzer di sensazioni, nella calda carezza avvolgente di questo vino ho ritrovato il suo sorriso. Sono certo che con l'eredità di Luigi, con i suoi vitigni da lavorare e con i suoi vini in attesa di altre cure in cantina, il mio amico enologo Maurizio De Simone saprà cavarsela a dovere.
E, sullo stesso versante, ad est del Taburno e a pochi chilometri da Torrecuso, c'è la cittadina di Ponte, ove ha sede un'altra azienda del nuovo Sannio, degna di essere citata. La casa vinicola Nifo Sarrapochiello, guidata dal bravissimo quanto modesto Lorenzo Nifo. Anche qui il repertorio è ristretto agli autoctoni, con aglianico e falanghina in testa. Su tutti, credo che la falanghina da vendemmia tardiva Alenta - quest'anno ho potuto provare la 2006 - e il rosato di aglianico Marosa, siano due vini di valore assoluto. Il primo è un vino dai profumi inebrianti, ha qualcosa della malvasia e di altri vitigni aromatici, caldi e balsamici; alla bocca è complesso e profondo, non certo beverino, di bella mineralità e con retrogusto lunghissimo, di frutta secca e aromi esotici. Il secondo, a dispetto di un colore tenue e delicato, ha anch'esso un bel naso floreale ed elegante, è di buonissima beva, grande dinamicità e mineralità.


I dirimpettai del Taburno

Sulle colline a nord e ad ovest del Taburno, dunque, altre doc di grande interesse: Sant'Agata dei Goti, Guardiolo, Sannio. La prima di queste, Sant'Agata de' Goti, è legata in particolare ad un'azienda, Mustilli, di cui si è detto oramai tutto, tanto è gloriosa la sua storia e tanto, soprattutto, è il debito di riconoscenza che le deve tributare l'intero comparto vitienologico campano. In particolare è atto dovuto il ricordare la riscoperta, ad opera di questa azienda, di quel vitigno falanghina - quel nome che fa impazzire i computer ignoranti, pronti a tramutarlo in falangina - che, tra i più diffusi e conosciuti vitigni a bacca bianca della Campania, è l'unico vero autoctono originale.

A Castelvenere, quel paese che, dicevamo, non riesce a non vantarsi "anche" della quantità prodotta, ha sede l'Antica Masseria Venditti, condotta con metodi biologici dall'enologo Nicola Venditti. Quando parlo di quest'azienda non riesco a eleggere un mio vino preferito: su ogni cosa mi affascina il gran lavoro di ricerca e di salvaguardia dei vitigni e del territorio che Nicola porta avanti con passione ostinata. Il Grieco, si badi Grieco e non Greco, secondo la G.U. recante la doc Sannio corrisponderebbe al Trebbiano Toscano; il Cerreto invece, che secondo la norma corrisponde alla Malvasia di Candia, secondo Nicola è un clone assolutamente genuino di queste terre. Per non parlare della Barbera, che nelle sue vigne è impiantata dal 1968 e che in base alle ricerche sostenute dall'azienda è un vitigno assolutamente diverso, di cui non esistono eguali al mondo; tant'è che Nicola, per tagliar corto e per affermarne la diversità, ha chiamato il vino che ne deriva Barbetta, come un suo avo che curava la vigna e che aveva, appunto, un po' di barba: questo è il vino di zio Barbetta...E poi ancora tanti altri vitigni semisconosciuti o semiscomparsi, Mangiaguerra, Olivella, Ariatico, Uva Lunga, Uva Simone, Agostinella fanno mostra di sé nei vigneti didattici dell'azienda, attigui alla cantina di vinificazione.

Parlando di Castelvenere, poi, mi sovviene l'azienda Fattoria Ciabrelli, una realtà troppo spesso poco considerata dalla stampa specializzata ma che ha fatto del rispetto del territorio e della tipicità dei prodotti la propria cifra di comportamento. Forse proprio perchè i vini di Antonio Ciabrelli, enologo e titolare a conduzione personale, non hanno uno stile moderno, forse perchè coi rossi non ci sono arricchimenti da legno, forse perchè la sua scuola è l'abc essenziale del vino, ci si dimentica che questa azienda è stata una delle prime a fare viticoltura di qualità, a puntare da almeno vent'anni sui particolari cloni di vitigni locali, sottolineandone le sostanziali differenze con i ceppi più diffusi. Uno per tutti la barbera: con sorprendente analogia rispetto a quanto affermato da Venditti, anche Antonio Ciabrelli sostiene che si tratti di un vitigno molto diverso da quello più conosciuto e che il disciplinare di produzione, non recependo invece la diversità, ha classificato semplicemente come barbera, consentendo di conseguenza l'impianto di uve in certo senso "alloctone". Ciabrelli sostiene trattarsi dell'unico caso di "falanghina rossa". Ma anche gli altri vini di casa sono un esempio di pulizia olfattiva, di semplicità e di fragranza, sia i doc Solopaca sia gli Igt Beneventano, a cominciare dalla splendida freschissima Coda di Volpe, ribattezzata in questi luoghi come Uva Coda a Pecora.

E, per finire, c'è Guardia Sanframondi, un paese che certamente è più conosciuto in Italia per i cd riti "settennali" che non piuttosto per il vino. Si tratta di riti che si svolgono, ogni sette anni appunto, in onore della Vergine Assunta. Tra le figure che simboleggiano la penitenza, vi sono i cosiddetti "flagellanti" ed i "battenti" che, coperti da un camice bianco e da un cappuccio - anche per difenderne l'identità - per ore si percuotono le spalle con catene o si battono il petto a sangue, con una "spugna", nella quale sono infissi numerosissimi chiodini.

Eppure in questo luogo, oltre a queste forti suggestioni di carattere religioso, vi sono aziende che hanno fatto della qualità la propria misura produttiva. In costante crescita Terre Stregate, guidata dall'appassionato tandem di coniugi Maria Pacelli e Armando Iacobucci con la consulenza enologica di Nicola Trabucco. La gamma dei vini offre un ventaglio di prodotti di altissima qualità, dall'aglianico Guardiolo doc Scrypta, all'igt Manent, dalla falanghina igt Trama alla falanghina Sannio doc Svelato, dal Greco Aurora al Fiano Genius Loci. Su tutti la Riserva di aglianico Arcano, con 24 mesi di affinamento, di cui 12 in barriques di primo passaggio. Al naso, dopo un inizio scontroso escono fuori intense note fruttate di prugna matura, more e sottobosco; notevoli le tonalità speziate di corteccia di quercia, resina, balsamo aromatico e qualche nota di incenso. Alla bocca è pieno e gustoso; dinamico e voluttuoso alla beva, è rotondo e avvolgente. Sul finale, caldo e persistente, il tannino vivo e diffuso, ancorché rotondo e ben levigato, ci ricorda che ci troviamo di fronte ad un aglianico di razza. Perfetta rispondenza tipologica e territoriale.

Altra azienda dai risultati più che consolidati, I Pentri, di Dioniso Meola e Lia Falato, punta più sul piedirosso che non sull'aglianico. E il risultato, con lo splendido Kerres, è di tutto riguardo: raramente è possibile trovare, in tema di piedirosso, una materia prima capace di essere sottoposta ad una lunga permanenza in barriques. Questo vino, in cui è evidente la mano di Angelo Valentino, intriga subito, a iniziare dal colore scurissimo, con riflessi violacei. Al naso è un esplosione di frutta matura, carnosa e spessa, dalle more alle ciliege nere - quelle che stingono le tovaglie - al ribes, alle more, alla liquirizia. La bocca conferma le attese, la beva è salda e compatta, senza sbavature e senza slegature; il corpo è pieno e sapido. Alla cieca, difficilmente riconosceremmo in questo vino quasi masticabile l'esile piedirosso...Della falanghina Flora, e della sua fortunata quanto rara vendemmia tardiva Gran Momento di Flora, in bottiglia solo quando l'annata lo consente, si è detto ogni bene, perciò aggiungerò solo che si tratta del miglior rappresentante in circolazione dell'antico vitigno del Sannio.

E, senza muoverci da Guardia, per concludere questo breve excursus, ancora due realtà aziendali. La prima è Corte Normanna, che oramai punta decisamente su tre prodotti principali: la falanghina Palombaia, il Passito da falanghina Porta dell'Olmo e l'Aglianico Tre Pietre. Nell'ordine: leggermente fuori dagli schemi la Palombaia, dal colore paglierino intenso con riflessi dorati e dal profumo intenso ed elegante ben suddiviso fra sentori floreali, fruttati e speziati, rappresenta una versione decisamente più morbida e gradevole di falanghina, con grande persistenza gustativa e finale caldo e fruttato. Il passito Porta dell'Olmo è il miglior esempio possibile delle potenzialità di questo vitigno in appassimento: dal colore quasi ambrato, di grandissima persistenza olfattiva, di miele vaniglia e confettura di albicocca, offre alla bocca una gustosità senza eguali, senza perdere in acidità e snellezza. Morbido e caldo, questo passito si presta a meraviglia a fine pasto quale compagno di torte di pere e ricotta, pasticceria secca o anche con formaggi molto stagionati e miele di castagno. Infine, sempre a Guardia Sanframondi, ha sede l'azienda vinicola De Lucia, di Cosimo De Lucia, della quale molto brevemente voglio ricordare il cru di aglianico La Murellaia, un vino più volte testato e sempre sorprendente. Macerazione prolungata e lunghissimo affinamento in legno conferiscono a quest'annata 2004 spessore e pienezza. Lo spettro aromatico è assai intenso, dai profumi di viola al tabacco, al cuoio, al caffè tostato, alla china, al rabarbaro. Alla bocca la solida spalla acida sostiene un'impalcatura di tutto rispetto; buoni la mineralità e il disegno sottile del tannino. Il finale è lunghissimo, potente e carezzevole. Perfetta armonia, grande stoffa.

Alla prossima, grande generoso Sannio...

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Ugo Baldassarre

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Napoletano, 48 anni nel 2007, studi scientifici prima, di giurisprudenza poi. Il lavoro, ormai quasi trentennale, di funzionario amministrativo e...

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