Forse in nessuna parte d’Italia come in Puglia, girovagando tra cose di vino puoi imbatterti in prodotti inaspettati, originali, a volte di moderna fattura a volte anche ammiccanti al passato, ma mai retrò, semmai attenti alla parte migliore della propria tradizione coniugata alle più attuali esperienze e tecnologie. Il vantaggio produttivo, il plusvalore di questa terra, probabilmente deriva proprio dalla sua estrema varietà di climi, dagli ottocento chilometri di coste, dall’infinità di esposizioni e giaciture dei vigneti, dalla ricchezza estrema del suo patrimonio ampelografico, un vero e proprio crogiuolo di autoctoni, di internazionali e di vitigni che, pur caratterizzando maggiormente altre regioni limitrofe, qui non solo si sono acclimatati a dovere ma hanno assunto personali connotazioni caratteristiche, divenendo anch’essi veri e propri autoctoni pugliesi.
E’ il caso anche di alcuni vitigni che traggono la loro fama più da altre regioni, e segnatamente dalla Campania, come Aglianico, Fiano e Falanghina. L’Aglianico è diffuso nella regione un po’ dappertutto, dalle Murge e dalla Val d’Itria al foggiano, alla zona del Castel del Monte e, a spruzzi, anche nel Salento. Si tratta di un Aglianico autoctono e chi ne ha provati diversi si accorge che, sì, somiglia al cugino campano e in parte a quello lucano, ma è meno austero, più bevibile, con tannini più dolci e pronti che non necessitano di grandi invecchiamenti come accade, ad esempio, al vitigno base del Taurasi. Mi piace ricordare i prodotti a base aglianico di Tormaresca, Polvanera, Rivera, Torrevento, Colle Petrito, Cantele, Villa Schinosa, Tenute Girolamo e tanti altri ancora.
E’ il caso poi del Falanghina, che in Puglia può vantare una personalità tutta sua, in particolare con aspetti aromatici più intensi e con tratti gustativi di maggior equilibrio degli altri vitigni similari, dal momento che l’acidità è sicuramente meno spinta, ad esempio, rispetto agli omonimi campani o molisani.
E qui le produzioni più convincenti portano la firma di Polvanera, Spelonga, Fujanera, Torresanta e Alberto Longo. Stesso discorso vale per il Fiano, non quello “Minutolo”, di cui già abbiamo raccontato spesso (anche qui) e che, oltre ad essere sicuramente autoctono più antico, è in realtà una versione aromatica di Vitis Aminea Gemina, cioè di Greco, ma parliamo proprio del Fiano, di quello stesso clone che in Campania ha conosciuto maggior gloria, anche se oggi una recente ricerca del prof. Antonio Calò ne attesta la comparsa anche in terra pugliese in tempi abbastanza remoti, già nel XII secolo, ad opera degli Angioini. Riguardo al Fiano, anch’esso più dolce e suadente nella versione di Puglia, come aziende che hanno saputo riprodurne le migliori espressioni mi piace ricordare Conti Zecca, Botromagno, Rivera, Tormaresca, Paolo Leo – dall’ultima vendemmia – e, nuovamente, Cantele e Spelonga.
Nel mio vagabondare in cose di Puglia, voglio anche raccontare più da vicino qualche vino che mi ha piacevolmente impressionato. Tutte interessanti e decisamente territoriali le proposte di Cantine Spelonga, un’azienda che inserisce l’attività vitivinicola, in tutto 40mila bottiglie, nella più vasta gamma di produzioni di olio extravergine d’oliva, segnatamente il monocultivar “Coratina”, e di prodotti da orto e da vivaio, tutti realizzati con accuratissime lavorazioni e con coltivazioni di tipo biologico.
Se i bianchi, di cui già ho accennato, il Fiano e il Falanghina, si distinguono entrambi per l’approccio olfattivo esemplare, per la pienezza la continuità e l’equilibrio gustativo, sicuramente i rossi meritano ancora più attenzione. In prima fila si posiziona l’Igt Puglia Nero di Troia, il vino su cui si concentrano le maggiori aspettative aziendali.
La vendemmia 2011 si presenta con un abito scurissimo, di un porpora impenetrabile ed unghia viola intenso, profumi di frutti di rovo, more e mirtilli, nuances fresche di menta e foglia di lentisco. In bocca sorprende per la grande coerenza: il sorso restituisce con puntualità ogni suggerimento del naso, soprattutto nel frutto giovane e compatto, dolce e croccante. Dalla grande spalla acida, è decisamente verticale, ha ottimo dinamismo, prosegue diretto e preciso, pulito e gustoso fino alla chiusura che riporta puntualmente con sé il gusto del frutto ed un delicato dolce tannino.
L’altro “gran” rosso di casa Spelonga è l’Igt Puglia Primitivo, degustato anch’esso nella versione 2011, che in gran parte ricalca la filosofia gustativa aziendale, sia per franchezza, sia per la ricerca di un vino senza addizioni da legno, sia per la pulizia gustativa. Anch’esso decisamente impenetrabile nell’aspetto, il Primitivo all’olfatto offre sfumature di frutti ancor più dolci, di ciliegia e di prugna mature, seppur conditi con qualche nota terrosa, di spezie e burro fuso.
L’ottimo lavoro aziendale ci offre alla bocca un Primitivo lontano dalla solita declinazione banale estratto-morbidezza-potenza, poiché questo vino si insinua al sorso con bella progressione, certo non è snello ma neppur invadente, ha belle doti di freschezza e persino un tannino ancora fresco e da levigare. L’unica nota forse non perfettamente accordata è l’alcol, che si affaccia con prepotenza nel finale. In ogni caso si tratta di due “signori” vini, vini che raccontano, con parole semplici, della scelta aziendale di produrre nel rispetto del vigneto e della natura, che raccontano anche del territorio, di quella rigogliosa porzione di Puglia che è il Tavoliere Dauno.
Poco più a sud, proprio d’appresso all’operoso centro di Canosa, in contrada Cefalicchio si colloca l’omonima cantina, un’azienda agricola biodinamica. produzione totale 70mila bottiglie, con una gamma però suddivisa in ben 11 etichette. Intrigante, sostenuto da quel fascino tutto particolare che posseggono solo i vini da vitigno aromatico, soprattutto se vinificati senza residuo zuccherino, il Moscato Bianco in purezza Igt Puglia 2011 Jalal, il cui nome vuol fare riferimento al filosofo persiano Gialal, sulla scorta di un pensiero di questi semplice e profondo al tempo stesso: “l’uva vuol diventare vino”.
Non è facile raccontare della sua esuberanza olfattiva, qualcosa di simile lo si può trovare solo in qualche raro Moscato di Terracina o in uno Zibibbo secco siciliano: la nota varietale ha un fulcro segnatamente muschiato, e su questo si innestano aromi di fieno fresco, erba medica, lavanda, ginepro e pompelmo bianco. All’assaggio l’ingresso, appena dolce, può ingannare ma, ben presto, il vino si mostra persino ancora aggressivo e scattante, ha nerbo e acidità, è compatto e succoso e prosegue dritto e verticale fino alla chiusura in cui tornano piacevoli sensazioni aromatiche-erbacee. L’alcol, ben dosato, accompagna a lungo il fin di beva e sostiene a dovere un sorso, tutto considerato, complesso e ricco di sensazioni.
Tra tutte le altre bottiglie aziendali abbiamo poi scelto ancora un Nero di Troia in purezza, ma con qualche anno sulle spalle, il Doc Canosa Riserva 2008 Romanico, che scaturisce dalla scelta aziendale di usare lavorazioni più lunghe con questo vitigno, per la precisione un anno di legni grandi di Slavonia e poi un lungo affinamento in bottiglia, non meno di 18 messi ancora. L’olfatto si divide tra note di frutta matura, soprattutto ciliegia e prugna, e tante dolci note di cioccolato e nocciole tostate, spezie, pepe scuro ed un filo di nero goudron. I profumi sono lunghi e sinuosi e si ricompongono all’assaggio netti e puliti, assieme a tannini piuttosto decisi ma anch’essi dolcissimi, anche sul fin di beva di un sorso decisamente piacevole, compatto, sorretto da viva acidità. L’aspetto più piacevole, in questo vino, è proprio la sintesi tra le sensazioni fresche del frutto e le sfumature aromatiche e speziate aggiunte dal tempo e dal legno, comunque mai invadente, un bilanciamento, pressoché perfetto, tra immediatezza e profondità, snellezza e complessità.
Un’altra azienda di cui, unanimemente, si dice un gran bene è quella sita in Acquaviva delle Fonti, cioè esattamente sulla mediana della direttrice Bari-Gioia del Colle, di Nicola Chiaromonte. Il sottoscritto, dopo aver provato i vini di quest’appassionato “primitivista” d’eccezione, non può che unirsi al coro di lodi, soprattutto alla luce, ancora una volta, dell’intelligenza e dell’intuito dimostrati dal produttore nell’ascoltare e assecondare le vigne, nella sua capacità di non snaturare le sue bottiglie a base Primitivo di Gioia del Colle e anzi di trarre il meglio che il vitigno sa regalare.
Coltivato con il classico sistema dell’alberello pugliese, con rese bassissime, il Primitivo viene lavorato da Nicola Chiaromonte solo in acciaio, ad esclusione del solo Riserva, l’unico tra tutti i vini della gamma a conoscere l’affinamento in legno. Il Muro Santangelo Doc Gioia del Colle Primitivo 2009 è un vino senza veli: subito, dal primo impatto, si presenta per quello che puoi e devi aspettarti da un Primitivo di buona fattura, con aromi di frutta dolce, qualche nota sottospirito, sfumature burrose e qualche profumo di china e macchia mediterranea. Nel complesso quindi anche “fresco” al naso, in bocca il vino è taglia oversize, decisamente opulento e purtuttavia, grazie anche ad una spalla acida importante, riesce a non perdere in eleganza e in movimento; certo, per quanto è spesso, succoso, gioca molto con i muscoli ma possiede anche una bella vena sapida che accompagna in tutta la beva il frutto maturo, fino alla chiusura potente, quasi esplosiva, in cui si affacciano anche dei tannini maturi, dolcissimi.
L’unico bianco di casa Chiaromonte è invece l’affascinante Igt Puglia Kimìa 2012, un Fiano Minutolo paradigmatico, che racchiude cioè in sé la quintessenza dell’aromatico pugliese: naso particolarmente sospinto sul versante erbaceo, con una vena ricchissima di sensazioni, quali salvia, muschio, menta e sambuco ma anche con note suadenti e dolci di fiore di camomilla, miele e pane croccante. Nel sorso saltellante, ancora molto nervoso, c’è notevolissima spinta acida, tornano con prepotenza aromi di erbe e di muschio ed il finale è sostenuto da una bella vena calda, avvolgente.
Considerati i non comuni aspetti aromatici, questo vino può ben accompagnarsi a pietanze anche complesse, come primi piatti, frittate con salsicce e cipolle, formaggi erborinati, oppure, come consigliano in loco, su animelle di agnello o sui famosi “gnummarelli”, gli involtini di interiora.
Della cantina storica di Alberobello, Albea, che ospita al suo interno anche il museo del vino della famosa cittadina dei Trulli, credo che ormai si sia detto tutto il possibile, per cui mi limiterò a raccontare solo delle impressioni di alcune degustazioni. E comincio con l’ultimo arrivato, con lo spumante brut metodo classico Donna Gislena Medici, duemila bottiglie prodotte in questa fase ancora sperimentale, quasi di rodaggio, dalla fattura accuratissima, con ventiquattro mesi di permanenza sui lieviti e ulteriori cinque mesi in bottiglia dalla sboccatura. Si tratta di un assemblaggio di quattro vitigni autoctoni, il Verdeca come base prevalente e poi, ognuno circa per il 20 percento, Bianco d’Alessano, Fiano Minutolo e Maruggio, lo storico vitigno di Val d’Itria ormai coltivato in pochissime parcelle di vigneto pugliese.
All’aspetto visivo, che per un metodo classico non è da trascurare, il perlage, già a tutto punto, appare finissimo, rilucente a lungo e molto diffuso nel calice. Al naso la presenza di un aromatico come il Minutolo si fa sentire: qualche fresca sfumatura di zagara ed ananas infatti fa da complemento ad aromi sostanzialmente dolci di burro fuso e impasto di pane in lievitazione. Al gusto qualcosa è ancora fuori posto: buono l’ingresso, anche gonfio inizialmente sotto la spinta delle bollicine. Poi però dalla seconda metà il vino si assottiglia, è piuttosto scarno, sebbene torni sul finale un piacevolissimo aroma di bocca, lungo e floreale; anche la nota alcolica, decisamente sostenuta, è sproporzionata rispetto alla materia del vino. In sintesi uno spumante a due velocità, già perfetto e con notevoli doti di pulizia e di eleganza nelle fasi visiva ed olfattiva, incompiuto ma con grandi aspettative al gusto. Non lascia alcun dubbio sulla propria compiutezza, invece, l’Igt Puglia Petrarosa 2012, un rosato di grande personalità, a base di uve Primitivo lavorate con la tecnica del salasso, un 20 percento dal mosto rosso originario.
Se l’idea è quella di avere una valida alternativa al più quotato rosato da Negroamaro, che possa aggiungere forza e impatto gustativo alle doti irrinunciabili, per un rosato, di freschezza e bevibilità, allora certamente l’obiettivo è stato raggiunto: il naso è pulito, varietale, con aromi di rosa canina e di frutti freschi di bosco, soprattutto dolci ciliegie. L’ingresso è dolce, il sorso è morbido compatto e verticale, di ottima progressione; il finale è lungo, coerente nei suoi ricordi di frutti rossi, piacevolmente caldo. Ma il campione aziendale, il vino su cui Albea oggi raccoglie i maggiori consensi è l’Igt Puglia Nero di Troia Lui, un nome scelto in occasione del centenario aziendale proprio per sottolineare un punto fermo, un punto d’arrivo e di ripartenza.
L’accurata lavorazione prevede un salasso di almeno il 15 percento dalla massa, una sosta di due-tre settimane sulle bucce, il passaggio per almeno dieci mesi in barriques e infine un breve periodo di affinamento in bottiglia. Degustato nella versione 2009, questo vino al naso potrebbe ricordare certi Pinot, con le sue numerose sfumature terrose, di spezie, noce moscata e pepe nero che accompagnano i più varietali sentori di frutti sottospirito e frutti di bosco, soprattutto lamponi maturi e marmellata di amarene. Ma al gusto la straordinaria materia del Nero di Troia fa la differenza: la bocca è piena e verticale, quasi grassa, ha stoffa ed eleganza di movimento così perfettamente armonizzata tra acidità e morbidezza, sapidità e struttura. Il finale è lunghissimo, caratterizzato dalla presenza di alcol e tannini, e suggerisce, unitamente all’opulenza del sorso, abbinamenti adeguati come pecorino di fossa, “pignata” di carne di cavallo oppure un saporito maialino nero della Daunia al forno con patate al rosmarino.
Che il destino della famiglia Botrugno fosse quello di coltivare vite e produrre vino pare sia scritto già nel cognome, giacché la radice botrys in greco, poi botrus in latino, sta proprio ad indicare il grappolo d’uva. Devo dire che, personalmente, più dell’affascinante accostamento linguistico, mi convincono i vini che ho provato e l’altra definizione che in famiglia sono soliti attribuirsi: i viti-cultori Botrugno. Sede aziendale cittadina, a Brindisi, Botrugno coltiva trenta ettari di viti, da cui ricava circa centomila bottiglie, suddivise in dodici referenze. Patrunu Rò, padrone Rò, è il nome voluto dall’attuale titolare aziendale Sergio per ricordare il capostipite familiare, Romolo Botrugno, che nel dopoguerra volle riprendere la lavorazione dei vigneti.
L’Igt Salento Patrunu Rò Primitivo 2011 ha un impatto olfattivo vinoso e deciso, scuro come il colore che lo contraddistingue, con aromi di china, liquirizia, grani di pepe, mora selvatica. La bocca è spessa e compatta, pulita e coerente, con ritorno di frutta rossa giovane. Nel finale, caldo e lungo, sgomitano i tannini ancora mordenti, giovani, sorprendenti per questo vitigno.
L’Igt Salento 2011 dal nome Vigna Lobìa è invece un Negroamaro in purezza in cui l’uso del legno si fa sospettare già dall’olfatto, dove le note speziate e tostate, di cacao e vaniglia, si sovrappongono, un po’ a lungo, al frutto, agli aromi di viola e prugna matura. Alla beva il vino è equilibrato, lineare, gustoso, ha buona struttura e si sviluppa armonico fino alla chiusura, dove il legno ha sapientemente smussato le asperità dei tannini, stavolta dolci e croccanti.
Arrivederci al prossimo eno-giro di Puglia.
Napoletano, 48 anni nel 2007, studi scientifici prima, di giurisprudenza poi. Il lavoro, ormai quasi trentennale, di funzionario amministrativo e...
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