Quando si parla del binomio vino-Puglia la mente va subito ai grandi numeri della produzione ed ai vitigni più conosciuti, tutti a bacca nera, come il Negroamaro, il Nero di Troia o il Primitivo, anzi i Primitivi, al plurale, considerata la grande differenza fra gli esemplari di Manduria e Gioia del Colle. Solo in seconda battuta vien da pensare ai bianchi tra i quali, vuoi per conoscenza diretta vuoi per reminiscenze scolastiche, subito annoveriamo il Bombino, il Bianco d’Alessano, il Verdeca o qualche bella esperienza perfettamente acclimatata dell’alloctono Chardonnay. Quando si parla del binomio vino-Puglia si adoperano, cioè, due assiomi indiscussi: uno che riguarda l’assoluta prevalenza, in ordine all’importanza e alla qualità, dei vini rossi sui bianchi e l’altro che ci riconduce al ristretto novero dei vitigni già indicati.
Circa l’aspetto qualità, scrollatasi di dosso l’etichetta di “regione di quantità”, la Puglia, in linea con il trend produttivo del Sud Italia, ha registrato da ultimo una drastica diminuzione delle superfici vitate, oramai ben al disotto dei centomila ettari, in parallelo ad una crescita sensibile della percentuale dei vini a doc: come dire che anche qui si produce meno ma sempre più di qualità...
In questo panorama, ciò che stona è la contraddizione stridente tra la vocazione storica “bianchista” della regione e l’attuale atteggiamento di ossequio ai vini rossi, più fortunati e richiesti nei mercati. Soprattutto se si considera che la Puglia, con i suoi settecento e più chilometri di costa, che ne fanno la prima regione costiera non insulare d’Italia, ha una cucina tipica improntata principalmente al pesce, ai piatti di mare e alle verdure.
Credo che non sia esatta neanche l’asserzione di chi sostiene che i vitigni bianchi pugliesi non abbiano pari personalità rispetto ai rossi, perchè da queste parti c’erano – ma ci sono ancora – tanti bianchi di qualità. Più semplicemente, per quanto riguarda il passato, quando ad inizio secolo scorso si dovette scegliere cosa reimpiantare nei vigneti distrutti dalla fillossera, si pensò bene di piantumare, e con sistemi massivi, le viti più produttive e redditizie, quelle che i contadini significativamente chiamavano Stracciacambiali, così come analogamente accadde in Romagna, dove fu preferito il generoso Pagadebit.
Ed è così che di alcuni vitigni bianchi ci resta solo qualche testimonianza, oltre al ricordo di nomi come Colatamburro, Luvino, Sancinella, Mennavacca e Cuntrella. Stesso discorso per un vitigno di sicura qualità, il cui derivato nell’800 era riservato dai contadini solo agli ospiti di riguardo, il Gravisano, anch’esso appartenente al ricchissimo areale di Gravina, ampiamente documentato come vitigno vendemmiato tardivamente, a seguito di un lungo appassimento su alberello, per ottenerne un prezioso vino dolce.
Per ironia della sorte la Puglia, serbatoio inesauribile di uve da esportare a beneficio delle regioni confinanti e, tra queste, soprattutto la Campania, proprio da quest’ultima nel corso dei secoli ha importato due vitigni bianchi di qualità, il Greco ed il Fiano. Il primo fu voluto da Federico II, affinché i suoi vini potessero seguirlo nelle soste nei castelli pugliesi; il secondo, l’uva coltivata da tempi immemorabili in Irpinia, proveniente però in questo caso da Cava de’ Tirreni, per volere degli Angioini fu fatta trapiantare a Manfredonia nel ‘300.
Il Fiano e gli altri bianchi
Sicuramente quel che fu importato all’epoca in Puglia è il vitigno Fiano, quello più conosciuto e diffuso con tale nome in terre campane ed oggi utilizzato con Verdeca e Bianco d’Alessano in uvaggio nella doc Locorotondo. Ciò che è molto incerto, invece, è l’origine di un altro vitigno minore che porta lo stesso nome, al quale però storicamente è stato sempre aggiunto un aggettivo proprio a significarne la profonda differenza: il Fiano “Minutolo”. Quest’uva, oggi chiamata anche con i semplici appellativi di Fianello o Minutola, da molti è definita anche Fiano Aromatico, in modo da distinguerla dall’altro Fiano, quello neutro; alcune ricerche ampelografiche, nel riattribuirne la primogenitura alla terra pugliese, ne hanno anche isolato diversi cloni ed hanno messo in luce la sua estrema somiglianza al Greco bianco aromatico. E si tratta certamente di un vitigno che dovrebbe essere ascritto al novero degli aromatici e che non sfigura al cospetto di Moscati e Malvasie.
Gran parte del merito di questa riscoperta va attribuito al lavoro dell’enologo Lino Carparelli, che per la linea I Pastini dell’azienda Torrevento di Locorotondo, la capitale della Puglia bianchista, da Fiano Minutolo in purezza ha realizzato l’Igt Valle d’Itria Rampone. Ammiccamenti dolci, erbe aromatiche, piante officinali e balsamiche, note eleganti di fiori d’acacia e frutta esotica rappresentano i marcatori olfattivi di questo vino, che come spesso accade con gli aromatici solo alla beva si svela essere in realtà secco, un affascinante filo di trucco naturale...Alla bocca la vena acida pervade e accompagna la beva, il tessuto è fitto e ben legato, anche le note morbide sono molto sostenute, accentuate nel finale caldo e persistente, in cui tornano prepotenti le note agrumate. L’abbinamento, parrà scontato, va dalle “alici arrecanate”, alle orecchiette con cime di rapa, alle frittate alla menta e alle zucchine “a cappello”.
A conferma della qualità del vitigno, un po’ tutte le interpretazioni stanno dando risultati di grande significato. Tra queste l’Igt Puglia Tufjano – già nel nome di fantasia c’è una differente inclusione del termine Fiano – dell’azienda di Gravina Colli della Murgia, dall’aspetto floreale molto intenso ed elegante, con note di mimosa e macchia mediterranea ed una piacevole vena sapido-acida che lascia immaginare perfetti connubi con la cucina di pesce.
Diversa impostazione per il Tenuta Marini, il Fiano di Candido – l’azienda che, mi sia perdonata la divagazione, produce il mio Negroamaro preferito, l’eccellente Cappello di Prete – più carico nella tonalità del dorato ottenuta anche grazie alla prolungata macerazione a temperatura controllata sulle bucce, con note aromatiche di carrubo, corteccia d’acero e, ancor più speziate, di noce moscata e cannella; trama fitta, frutto carnoso alla bocca, finale caldo e piacevolmente amarostico. Di grande interesse l’Igt Salento Cré dell’azienda agricola Vetrere, già assurto agli echi delle cronache dell’edizione 2008 della Selezione dei Vini da Pesce. Naso ampio, con note di frutta matura, fiori e oliva leccina. Bocca piena e morbida, con finale molto lungo e piacevole; personalmente, oltre ai piatti di mare l’abbinerei ben volentieri alle “pittule”, ai “ciceri e tria” ed alla tipica purea di fave e cicoria. Incline alle note olfattive più calde e tropicali l’Igt Tarantino Egiale, dell’azienda agricola Guida, in cui il Minutolo restituisce maggiormente le note di ananas, pompelmo e polpa di dattero, oltre a sfumature di rosa e mandarino; alla bocca è morbido ma anche fresco, di buona dinamicità e dall’elegante chiusura, ancora vanigliata e fruttata.
Tra i bianchi, oltre al Minutolo delle aziende che ho indicato – più qualche sperimentazione in purezza che mi dicono stia facendo la cooperativa Dolce Morso dell’area tarantina – va citata, ancora, la vinificazione del vitigno Pampanuto, uva molto simile al Bianco d’Alessano coltivata nei territori di Ruvo e Corato e utilizzata per lo più come complementare nella Doc Castel del Monte, ad opera di Tenuta Cocevola, Cantine Santa Lucia e delle Cantine Crifo, le Cantine Cooperative della ControRiforma Agraria, da cui l’acronimo, uno degli esempi più imponenti d’Italia di come la quantità – più di 1500 ettari per 1500 soci con produzione totale di 150mila ettolitri, un ettaro e cento ettolitri per ogni socio – possa sposarsi con una buona qualità media dei prodotti e con un ottimo rapporto qualità/prezzo.
Ancora, tra i bianchi, non va dimenticato l’Impigno, diffuso soprattutto nel brindisino e componente essenziale della Doc Ostuni. Di buona produttività, da vini semplici e di grande beva e buona acidità, piuttosto scarichi nel colore e dagli aromi delicati. Del vitigno Francavidda, autoctono originario di Francavilla Fontana, usato come complementare in percentuali minori dell’uvaggio della medesima Doc Ostuni, non esistono allo stato sperimentazioni in purezza.
[Foto credit: http://italian-flavor.com]
Napoletano, 48 anni nel 2007, studi scientifici prima, di giurisprudenza poi. Il lavoro, ormai quasi trentennale, di funzionario amministrativo e...
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