Reduce dal convegno sul brand nel mondo del vino organizzato a Roma dall'Agivi (Associazione dei Giovani Imprenditori Vitivinicoli Italiani) il 18 febbraio, ho deciso di partire da quanto è stato detto in quell'occasione per trarne alcune conclusioni.
La marca, così come evidenziato durante il convegno dalla professoressa Patrizia de Luca del MIB di Trieste, è un insieme di elementi (nome, simbolo, design, packaging) che identifica il prodotto e lo differenzia rispetto a quelli della concorrenza. Alla base dell'importanza della marca, sono due concetti: la notorietà della marca (quante persone si ricordano della marca e quante la riconoscono), e l'immagine di marca (ovvero un insieme di valori che il consumatore attribuisce alla marca).
Partendo da queste nozioni di base, la vera questione è questa: ha senso parlare di brand nel mondo del vino italiano? Con l'estrema frammentazione che c'è nel mercato, verrebbe da pensare quasi di no. Se si pensa al mondo dei detersivi infatti, i brand presenti e facilmente ricordati dal consumatore sono una manciata. Nel mondo del vino, sullo scaffale di un supermercato con un discreto reparto enoteca, già troviamo molti più brand. Per non parlare della distribuzione specializzata e quindi del canale enoteca! Cosa vuol dire questo? Che con questa estrema polverizzazione del mercato i presupposti di riconoscibilità del marchio che sono alla base della costruzione del marchio stesso, sembrerebbero già compromessi in partenza.
Non solo, secondo quando affermato durante lo stesso convegno dalla professoressa de Luca, la scelta della bottiglia nel canale Gdo è fatta innanzitutto sulla base di prezzo e occasione d'uso, e solo poi in base al packaging e quindi all'elemento più facilmente riconducibile al brand. Tant'è che in una ricerca effettuata da de Luca e Penco, è emerso che il consumatore al supermercato dedica al massimo 18 secondi alla scelta della bottiglia.
Il discorso del packaging al supermercato è importante, ma forse lo è di più la capacità, dei responsabili del reparto enoteca nella Gdo di pensare un layout e una comunicazione sul punto vendita in grado di soccombere alla mancanza di un sommelier. Se le bottiglie non sono disposte in un modo così intuitivo da essere chiaro anche a chi ha davvero pochi secondi da dedicare alla scelta del vino, a poco vale avere un'etichetta efficace - si perderà in mezzo a cento altre.
Diverso è il discorso se ci si concentra di più sulla marca intesa non tanto come packaging, ma come valori che si attribuiscono alla marca stessa, magari con particolare attenzione al canale enoteca. È qui il vero punto di forza del vino italiano, pur nella estrema frammentazione del mercato. Costruire un marchio dal basso, come ha suggerito durante il convegno Paolo Preti della SDA Bocconi, specializzato nel campo delle PMI, è determinante. Il marchio, secondo Preti, nel mondo del vino non va imposto attraverso scelte strategiche fatte a tavolino, ma attraverso una valorizzazione dell'azienda e del territorio di appartenenza. E questi sono tutti concetti che contribuiscono a creare quel valore di marca in grado di colpire il consumatore e in prima battuta chi vende il vino in enoteca e al ristorante. E considerando che sebbene a volume la Gdo sia in crescita, i canali specializzati a valore contano ancora per il 50% del mercato, è un elemento di cui non si può non tenere conto quando si parla di brand nel vino, soprattutto visto che, date le dimensioni aziendali medie, la stragrande maggioranza delle aziende italiane non arriverà mai nella Gdo.
Laureata in Economia e Commercio, Slawka è consulente di marketing specializzata nella comunicazione enogastronomica. Nel mondo editoriale...
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