Una mattina uscendo di casa vedo il corriere. Mi ferma e mi chiede di firmare perché c'è un pacchetto per il sottoscritto. Apro ed è lui, "Il Romanzo del Vino", il libro di Roberto Cipresso che sta riscotendo un grande e "inaspettato" (a sua detta) successo in tutte le librerie. Garanzia, se ne servisse visto il nome dell'autore, è data dalla lapidaria prefazione di Robert Parker Jr. Curiosità, senza dubbio. E poi, leggendo il libro, tante risposte a metà a domande che, solo per aver sentito parlare del wine maker Cipresso, vengono spontanee a qualsiasi appassionato, non necessariamente intenditore e/o esperto di vino. Così perché non chiedere di "quadrare il cerchio" riponendo quelle stesse domande alle quali in parte si risponde nel testo?! E allora parole intorno a vari calici, con all'interno alcuni dei suoi grandi e potenti vini, con l'enologo Roberto Cipresso. Di presentazione non credo ne abbia bisogno. La sua carriera, cominciata nel 1986 a Montalcino, lo ha visto in giro per il mondo. Successi a Montalcino con alcuni grandi Brunello, ma anche negli States. Nel 1999 fonda Winemaking, la società con sede a Montalcino da dove si sono sprigionate le filosofie di Cipresso circa il modo di interpretare il territorio ed il vino.
D. Un romanzo: "Il Romanzo" del vino. Nel prologo del suo libro spiega i motivi di questa scelta. Io le chiedo: perché è arrivata proprio in questo momento?
R. Ci sono voluti venti anni di esperienza. Giovanni Neri, che ha un'azienda in Piemonte per la quale ho prestato consulenza, un giorno mi ha chiesto di spiegargli il mio modo di interpretare il vino. E' stata una grande occasione. Ho rovesciato il mio cassetto di appunti; ci siamo incontrati con lui varie volte ed è uscito un libro nato per gioco e che sta riscotendo un successo inaspettato.
D. Cosa si aspetta da questo libro?
R. Diciamo che il libro arriva puntuale, in un momento in cui il consumatore si trova forse anche troppo confuso da una serie infinita di informazioni sul vino, forse spesso sommarie. Questo libro cerca di rassicurare il consumatore facendo capire che fare il vino non è solo un atto economico. Più che un romanzo è un saggio romantico dove cioè si cerca di far capire il romanticismo che c'è intorno al vino. Si utilizza un linguaggio molto semplice, poco tecnico, per tentare di riavvicinare il consumatore al prodotto senza che questo sia spaventato da parole troppo scientifiche.
D. Lei ama definirsi un winemaker nel senso di una persona che aiuta i produttori a realizzare dei grandi vini. Alla fine questi vini sono il prodotto che vuole lei, o è quello che pensavano i produttori per i quali lavora?
R. Il mio mestiere è quello di fare vino per dei clienti che devono diventare amici e complici per arrivare a dare espressione a un prodotto.
D. Quindi qual è la sua filosofia, se si può così dire, del fare vino?
R. In realtà io sono un po' come un architetto. Spesso i produttori mi chiamano perché cercano dei prodotti "alla moda" cioè molto vicini all'uomo, al consumatore. Io cerco normalmente di parlare con il mio interlocutore, di creare un rapporto di squadra e quindi, una volta comprese le sue esigenze, cerchiamo di capire come un vino possa assomigliare a chi lo richiede non snaturando la territorialità di questo prodotto.
D. Spesso però i suoi vini non rispecchiano puramente le caratteristiche di un dato territorio. O viceversa danno risalto alla varietà a scapito del territorio. Come spiega questo?
R. Io penso che il vino debba esprimere delle sensazioni. Io credo o nella varietà o nella territorialità. Terroir. Questa la parola. Se io prendo un merlot e lo porto in un territorio forte prevarrà il territorio sulla varietà. Al contrario se io porto una varietà dalle caratteristiche spiccate su un territorio debole avrò l'estremizzazione della varietà. Madame Leroy dice che il più grande Pinot nero è quello che non sa di Pinot nero, riferito alla Borgogna, dove cioè il territorio è fortissimo e "annulla" le caratteristiche di una varietà così forte come il Pinot nero.
D. Mi faccia capire. Lei quindi pensa che la territorialità non possa andare d'accordo con la varietà. Allora come spiega il fatto che i grandi vini italiani, per esempio, rivendichino la loro origine territoriale?
R. Le faccio un esempio. Pensi a un'opera teatrale. Se vado a vedere un'opera leggera l'attore e la sua bravura saranno i protagonisti. Ma se io vado a un'opera forte di concetti, il grande attore sarà colui capace di annullarsi di fronte all'imponenza dei testi. Per il vino è la stessa cosa. Cioè laddove la varietà si trova di fronte a un territorio di carattere si annulla a suo vantaggio e viceversa. L'uno rendendo complementare l'altro però.
D. E allora tutte le parole sull'autoctono in Italia? Crede quindi che sia inutile fare un discorso di ripristino dei vitigni nel loro territorio d'origine?
R. Io credo che sia un errore e un concetto banalizzato. L'autoctono in realtà, in questo momento, vuole essere una risposta al mercato. Cioè dopo l'internazionalizzazione torniamo all'autoctono perché siamo stufi dei soliti vini. Io credo non vada percepito così. Parliamo ancora di varietà. Gino Veronelli diceva sempre che l'autoctono come il cabernet vivono di un territorio. E' il vino che si vuole come risultato la risposta.
D. Lei ha dato vita a Wine Circus "la scatola magica" come la definisce, il luogo cioè degli esperimenti. Alla luce di quanto detto, cioè che territorio e varietà sono gli elementi fondamentali per un vino, cosa intende per esperimento?
R. Io amo definirlo la terra di nessuno. Wine Circus è un ambiente in cui azzardo facendo i conti con tanti aspetti. Qui si fanno esperienze andando al di là del terroir. Una volta che ho riconosciuto una certa qualità in un territorio, con spirito quasi anarchico si cerca di mescolare i terroir cioè capire come integrare le caratteristiche di diversi terroir. La mescolanza. Se è vero che le più grandi creazioni avvengono per la mescolanza e quindi per un'alchimia, allora possiamo creare dei vini derivanti dalla massima espressione di due terroir. E questa è la quadratura del cerchio. Si producono dei vini imperfetti, degli esperimenti. Però se non si prova non si sa mai se ci sarà un vino che tragga espressione da diversi territori.
D. Questo crea molte critiche nei suoi confronti. Come risponde?
R. Capisco che possa sembrare una contraddizione nel mio operato. Però credo che ci sia bisogno di ricerca in questo senso. Nel mio libro faccio l'esempio del Pinot nero, come vino complesso. Molto spesso si diluisce un vino per abbassarne la complessità. Nel caso del Pinot anziché produrre leggerezza la diluizione esalta la complessità. Io mi definisco un terroirista. Ho fatto tanti vini nel rispetto del territorio. Ora mi chiedo, esiste una mescolanza che possa darmi un prodotto ancora più perfetto?
D. Lei ha fatto un vino per una famosa pornostar. Pubblicità o cosa altro?
R. In realtà le notizie date non hanno mai detto che la ormai ex pornostar è la moglie di uno dei più grandi collezionisti e commercianti di vino al mondo, Daniel Oliveros. Sua moglie, che allora faceva ancora la pornostar, qualche anno fa ha deciso di entrare in questo settore per crearsi un futuro e non era un settore a caso vista l'attività del marito e la sua grande conoscenza del vino. Così rivolgendosi a me le ho proposto di venire nel mio Circo per assaggiare alcune varianti. Da qui è nato il progetto dei sogni. Il Sogno 1 era sul Cesanese, il Sogno 2 sulla Falanghina, il terzo sarà una barbera. Lo scoop non mi riguarda. Non ho bisogno di pubblicità, o di questo tipo di pubblicità.
D. Per chiudere, cosa bolle nel tino di Cipresso?
R. Nel 2007 partirà il progetto Wine Station. Insieme ad altre persone abbiamo recuperato la stazione di Montalcino con l'obiettivo di creare un ambiente dove dare vita a suggestioni attraverso l'integrazione di sensazioni diverse. Delle carrozze montate su binari morti con all'interno wine bar, musica, immagine. Un vero e proprio crocevia di emozioni perché il vino può essere un buon motivo di benessere.
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