Riprendiamo dalla cucina e dalla memoria?
Una sera, da Massimo Bottura (che il cielo – ma solo quello – abbia in gloria Ricci e Striscia la Notizia per l’ingiustizia che hanno fatto ad uno dei migliori cuochi del mondo), assaggiando la sequenza dei suoi piatti, ho provato questa sensazione ed è stato commovente nel senso più profondo e nobile del termine, sino al punto che avrei voluto che quella cena, non diversamente dal pomeriggio di Intelligenza Artificiale, non finisse mai. Massimiliano Alajmo ha chiamato “memoria” il suo profumo d’ambienti: un caso? Non so, chiederemo…
Sta di fatto che, dopo oltre venticinque anni di peregrinare per ristoranti e scrivere di cucina, mi sono convinto che la maggior parte delle definizioni che tra appassionati abbiamo coniato o, meglio, che poco preparati ma fantasiosi giornalisti ci hanno appiccicato (cucina creativa, alta cucina, cucina tradizionale, cucina del territorio, cucina molecolare e avanti c’è posto…) in realtà esprimano il nulla allo stato puro.
Non esistono “le cucine”.
Esiste “la cucina”, una ed una sola, che può avere due finalità: (a) nutrire e, in tal caso non ha senso parlarne o se ne parla solo dal punto di vista organolettico (qui si mangia peggio, lì si mangia meglio), limitandosi per il resto a mangiare o (b) far provare (o, meglio, riemergere) dei sentimenti dal nostro interno (ed allora è arte e se ne parla eccome).
Il discorso potrebbe essere approfondito e portato ad ulteriori conseguenze, ma probabilmente a questo punto non starà già più leggendo nessuno, per cui passerei all’altro oggetto di questo intervento, ovvero quanto sia lontana dal capire qualcosa la critica tradizionale (le odiose – non odiate, si noti, l’odio è un sentimento che va riservato a soggetti che consideriamo degni di riceverlo – Guide).
Mentre, infatti, i veri appassionati (con ciò non intendo dire la gente che la pensa come me, ovviamente, ma chi frequenta i ristoranti per passione e non per guadagnare o timbrare il cartellino o godere della sua microscopica area di – squallido – potere), cercano (in vari modi e con diversi risultati) di “trovare un senso”, un “perché” alla loro voglia di fare chilometri per provare qualche sapore, ciò che resta di quella che fu la Guida del Gambero Rosso (a proposito, complimenti per aver fatto fuori Bonilli: ora finalmente fate le figure che meritate) (ok, ora cerco di usare meno parentesi…) si esibisce in un inedito miracolo, ovvero, come avrete letto, quello di recensire, modificando persino il voto rispetto all’anno prima, un ristorante chiuso da due anni.
Avrete, poi, sentito scuse di vario genere: errore del computer (ROTFL! Come se l’avesse scritta il computer, quella recensione), errore del recensore, sfiga incredibile e così via. Niente di tutto questo… si trattava di circostanza che il Gambero Rosso (o, meglio e come detto, ciò che ne resta) già conosceva… guardate sul forum del Gambero Rosso. Gli appassionati glielo avevano già detto l’anno prima, andando persino sul loro forum, che quel ristorante non c’era. Ovviamente, però, loro erano troppo presi a far fuori amministratori delegati, assegnare bicchieri, stelle e quant’altro, magari anche non visitando ristoranti che, tanto, poi venivano recensiti comunque.
Non succederà nulla, ovviamente o, meglio, la colpa se la prenderà tutta il povero recensore anonimo, ultimo anello di una catena viziata dai peggiori difetti che si possano immaginare in questo piccolo mondo della critica gastronomica: presunzione, incompetenza, insensibilità del palato e non solo di quello.
Non saranno recensori, non pubblicheranno Guide, ma molto meglio, per capire il perché delle nostre passioni, affidarsi a Moretti o ad Orson Welles sperando, un giorno, di ritrovare per un attimo, grazie ad un sapore, quei “pomeriggi di maggio” persi chissà dove, provando l’unica cosa che dia un senso al tempo, alla nostra vita ed al nostro peregrinare, anche per ristoranti: un’emozione.
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Inserito da Angela Colesanti
il 07 dicembre 2009 alle 15:01