Qualche settimana fa mi sono imbattuta in un articolo che si intitola: “Quando le marche sopravvalutano i loro fan su Facebook”, che riportava alcune riflessioni compiute da Cédric Deniaud a partire dallo studio “You don’t know one fifth of your Facebook Friends “, che dimostra ancora meglio un dettaglio “trito e ritrito” applicabile a marche o persone indifferentemente: sappiamo come le marche tendano sempre più ad adottare delle - non sempre argute - strategie di marketing digitale, volte a reclutare fan o “liker”; basti pensare a Porche, Disneyland, l'Equipe, Nike.. e chi più ne ha più ne metta.
Primo e più conosciuto tra tutti Oltralpe è il caso de l'Equipe, marca che valorizza maggiormente i suoi 100.000 fan su Facebook che le persone - ben più numerose - che acquistano quotidianamente il suo giornale in edicola o che addirittura sono abbonati. Sta avendo luogo un misunderstanding tale per cui le marche sono più interessate a dare importanza ad una persona che clicca su I Like che ad un fedele cliente. Le marche sembrano non comprendere più quali siano i propri target principali, confondendo i clienti con delle persone che dimostrano un qualche segno di affezione (come un like per esempio).
Il paradosso è che informazioni puramente quantitative possano in qualche modo trasformarsi in strategia di comunicazione di marca. Ma, se invece di uno spazio di glorificazione della marca, Facebook fosse inteso come uno spazio di ascolto? Uno spazio per costruire in modo partecipato il contenuto di una marca?
Facciamo un passo indietro.
La marca è un racconto, una storia, qualcosa che deve incuriosire o sorprendere, deve essere avvincente, domani dobbiamo ancora aver voglia di sentirne parlare. Che si tratti di un succo di frutta, di un'auto o, perchè no, di un vino. Per fare ciò è necessaria una strategia, non bastano bravura o improvvisazione, tanto meno sul web.
François Bobrie, professore all'università di Poitiers, esperto in packaging del vino, in un recente articolo sulla semiotica (la disciplina che studia i segni e la comunicazione che i segni sottintendono) applicata agli sviluppi delle marche vinicole nel mondo, ci conferma l'importanza del racconto, del sistema di significati:
la marca è per la semiotica delle relazioni commerciali un racconto che porta verso l’oggetto di scambio, al fine di esprimersi laddove dove sono i valori del consumo, [...] Questo racconto é composto da un sistema di segni codificati chiamato anche piano d’espressione, che permettono la messa in scena di questi valori detti peraltro piano del contenuto.
Detto in altre parole: la marca è un motore per la fabbricazione di significati da attribuire al prodotto.
Per quanto riguarda i racconti dei valori del consumo di vino Bobrie ci ricorda che, il fattore decisivo della percezione del consumatore finale della qualità del vino non si gioca soltanto sulla scelta del "terroir" o della marca privata, ma su di un rapporto di fiducia che precede tutto ciò, che lo legittima e che in fin dei conti accorda doppia credibilità sul mercato.
Erroneamente si è spinti a pensare che un vino di marca sia un vino che fa grandi volumi, quando in realtà si tratta semplicemente di un vino che è stato firmato da qualcuno, anche se paradossalmente ne fosse prodotto un solo esemplare: dunque tutti i vini che portano un'etichetta firmata da un vignaiolo o produttore che dir si voglia, un negoziante, una cantina cooperativa, o anche un acquirente sono delle marche.
Queste marche a differenza però della maggior parte delle altre marche, hanno sempre bisogno di una fiducia accordata su due fronti, uno privato, basato sulla relazione personale ed uno pubblico basato su segni esteriori (denominazioni, consorzi, interprofessioni, ecc.).
Mi sono presa la briga di andare ad intervistare Bobrie, chiedendogli se internet, il web e le cosiddette “nuove tecnologie”, possono modificare questo approccio. Il fatto che enunciatori collettivi, come le Interprofessioni, ad esempio in Francia, abbiano cominciato a gestire la propria immagine ed i propri contenuti sui Social Media attraverso il reclutamento di “fan” cambia? Si tratterà di ascolto o di una nuova modalità di raccontare una storia? Domani, sarà il consumatore che clikka su I Like a dare credibilità al vignaiolo?
Secondo Bobrie, i fan su facebook o i followers su twitter o sugli altri media non prenderanno mai il posto dell'enunciatore pubblico per quanto concerne il vino. Certo, potranno dire se un vino è buono, se non è buono, se gli è piaciuto o meno ma avranno sempre bisogno di una rassicurazione istituzionale da parte del produttore e dell'enunciatore pubblico (denominazione, associazione, ecc ecc).
Il consiglio? Non trascurare mai il proprio sito internet, perchè diventerà sempre più importante, arricchirlo di contenuti interessanti, e mettere sempre foto di alta qualità, e se non ci sono piuttosto non mettere nulla. Ma questa è un'altra storia...
Mi chiamo Magda, sono originaria della non troppo ridente cittadina di Verona, città d'amore, di vino e di tante altre cose ancora, che...
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Inserito da Filippo Ronco
il 26 marzo 2011 alle 19:18Fil.