Premessa
Questo contributo costituisce l’elaborazione di alcune riflessioni proposte in un recente convegno tenutosi a Lecce il 12 dicembre 2008, organizzato dall’Università del Salento, Facoltà di Economia. Il tema del convegno era “I vitigni autoctoni come vantaggio competitivo”. La struttura portante è costituita da alcuni concetti tra loro contrastanti (autoctono-alloctono, globalizzazione-localizzazione, tradizione-innovazione) ma dotati di forti potenzialità di mediazione e di sintesi possibili in un regime di pensiero costruttivo. Il centro di nucleazione di queste riflessioni è il “territorio”, inteso come realtà complessa nella quale una molteplicità di segni, segnali, culture, storie, tradizioni ne struttura l’identità.
Non vogliono certo essere esaustive; intendono solo proporre alcune osservazioni sulle attuali linee di tendenza e sulle prospettive di sviluppo dei vitigni autoctoni o tradizionali, fortemente erosi dall’attenzione verso un mercato centrato sull’omologazione dei gusti e su un’offerta correlata.
Sono le culture che fanno il territorio, e la cultura del vino ha una significativa rappresentatività in molti contesti storicamente vocati per l’allevamento della vite e alla produzione del vino.
In questo ambito trova collocazione il percorso di valorizzazione dell’identità territoriale che utilizza, come strategia, la riscoperta, il recupero e la valorizzazione dei vitigni autoctoni.
1. Autoctono - Alloctono
In genere il termine autoctono o tradizionale viene utilizzato in contrapposizione ad alloctono o internazionale.
Nell’accezione comune, autoctoni sono considerati quei vitigni che da secoli sono allevati in un determinato territorio contribuendo a farne la storia. Pertanto, hanno un legame “storico” con quel territorio, nel quale raggiungono la migliore espressione.
Si tratta di vitigni giunti in epoca remota, che si sono progressivamente acclimatati sviluppando caratteristiche varietali uniche, irripetibili, riconoscibili. Pensando a vitigni quali il Negroamaro, il Primitivo, il Susumaniello, il Bianco di Alessano, tanto per fare qualche esempio, balza evidente il Salento perché di questo territorio costituiscono segni distintivi sotto il profilo vinicolo.
Alloctoni sono invece quei vitigni che hanno una grande diffusione in aree geografiche ampie e a diverse latitudini. La loro espressione, sia pure con una lieve differenziazione legata alla zona di produzione, è tarata sull’omogeneità delle caratteristiche organolettiche dei prodotti.
La scelta di allevare vitigni internazionali, effettuata unicamente per ragioni di mercato, purtroppo non va nella direzione della valorizzazione del territorio nella sua tipicità vinicola, essa tradisce uno dei principi stessi che regolano la vita di una comunità territoriale e che è la tutela e la salvaguardia della propria identità.
A fronte di questa scelta, si sta facendo lentamente strada, sia pure con timidezza, una linea di tendenza opposta. Ma il percorso è difficile, arduo, accidentato, tutto in salita.
2. Globalizzazione - Localizzazione
La sfida della globalizzazione, ormai invasiva e pervasiva della quotidianità esistenziale, da un lato tende a strutturare un mercato sempre più competitivo sul piano della qualità e del profitto, dall’altro attiva una condotta produttiva che appiattisce e omologa il gusto del vino. Effetti collaterali inevitabili sono, come giustamente scrive Pollini, una considerevole “riduzione della gamma delle sensazioni organolettiche disponibili e un evidente pericolo per la biodiversità viticola”. (1)
La strategia per vincere la sfida della globalizzazione è senz’altro l’affermazione della “tipicità” come idea regolativa di un territorio che vuole rimanere “unico” nella sua identità. In altri termini, la localizzazione riesce a tenere testa alla globalizzazione che ispira, condiziona, avviluppa.
Si tratta di un obiettivo prestigioso e di un percorso non facile che passa attraverso la riscoperta dei vitigni autoctoni che hanno fatto la storia del territorio e conduce alla valorizzazione dell’unicità come complesso di elementi caratteristici riscontrabili nei prodotti appartenenti alla stessa denominazione di origine.
L’unicità è fatta di esperienza e di tecnica consolidata nel tempo, spesa in un determinato ambito geografico, sintonizzata sulle sue caratteristiche pedoclimatiche. Non deve però costituire fattore di isolamento, sfociare o arroccare in una dimensione “localistica”; il confronto e il dialogo con altre realtà vitivinicole va ricercato senza riserva alcuna in quanto sollecita processi di miglioramento, arricchisce il corredo culturale e tecnico, in definitiva contribuisce a migliorare la propria capacità di intervento e quindi di produzione.
3. Tradizione - Innovazione
Parlando di “unicità” non si può non recuperare l’idea di tradizione come vincolo che lega alla storia e alla cultura di un territorio ma anche come strumento di valorizzazione e di affermazione di idee, orientamenti, scelte, percorsi, prodotti, come conservazione e perpetuazione dei caratteri distintivi dei vitigni e dei vini antichi e quindi tipicamente tradizionali.
L’ancoraggio alla tradizione non può e non deve però costruire alibi per non fare innovazione: qualunque struttura, organizzata in forma sistemica, che non fa innovazione è destinata ad un inevitabile progressivo declino.
Qual è il senso dell’innovazione?
Innovare non significa “rompere” con il passato, voltare pagina, ripartire da zero: l’innovazione non può identificarsi con l’espianto dei vitigni tradizionali per far posto a quelli internazionali. Innovare vuol dire realizzare processi di “adattamento” situazionale e migliorativo, spendere in ricerca e sperimentazione, fondare ogni prodotto su un progetto, senza perdere di vista l’obiettivo del mantenimento della propria identità vitivinicola, senza disperdere il proprio patrimonio di cultura e di tecnica. L’innovazione si costruisce inevitabilmente su una linea di continuità con la tradizione.
4. Linee di tendenza e prospettive
Lo Stato italiano da un lato e le Regioni dall’altro hanno da qualche tempo avviato un’azione di recupero e di valorizzazione dei vitigni autoctoni, anche se permangono in alcuni casi atteggiamenti fortemente contraddittori. E’ il caso della Toscana e delle Marche che, come rileva l’Associazione “Città del vino”, hanno deciso di inserire fra le varietà coltivabili il Sagrantino, espressione tipica dell’Umbria; è anche il caso della Puglia con l’inserimento del Refosco storicamente appartenente al Friuli Venezia Giulia.
La Legge 20 febbraio 2006, n. 82, recante “Disposizioni di attuazione della normativa comunitaria concernente l’Organizzazione Comune di Mercato (OCM) del vino”, all’art. 2, dopo aver precisato che è da considerarsi vitigno autoctono italiano “il vitigno la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale”, attribuisce alla Regioni il compito di accertare la coltivazione di vitigni autoctoni italiani sul territorio di competenza e di verificarne la permanenza della coltivazione per un periodo di almeno cinquanta anni, la diffusione sul territorio, il nome, la descrizione ampelografica e le caratteristiche agronomiche.
Il Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti, costituito nel 2001 con Decreto del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, sulla base del corredo documentario prodotto, provvede alla iscrizione del vitigno nel Registro nazionale delle varietà di viti con la dicitura “vitigno autoctono italiano” e con l’indicazione del nome storico tradizionale, di eventuali sinonimi, delle principali caratteristiche di colore dell’acino e della zona di coltivazione di riferimento.
Diverse Regioni hanno condotto e conducono studi ampelografici pù o meno approfonditi nell’ambito di progetti centrati sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni e sul recupero di alcune varietà di cui esistono, in molti vigneti, ceppi anche centenari: significativi gli interventi in questo senso da parte delle Regioni Toscana, Emilia Romagna, Sardegna, Abruzzo.
In Calabria, l’azienda Librandi, con il supporto scientifico del Prof. Attilio Scienza e dell’Università di Milano, ha posto in essere un campo sperimentale di varietà viticole autoctone calabresi allo scopo di recuperare vecchie cultivar regionali come, ad esempio, il Magliocco, il Magno Megonio, il Monsonico, l’Efeso.
Interessante anche l’intervento della Regione Lazio che, attraverso il CRA (Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura) di Conegliano e Velletri e l’ARSIAL (Agenzia Regionale Sviluppo Innovazione Agricoltura Lazio), ha promosso la realizzazione del progetto “Agricoltura-Qualità” che ha consentito una riscoperta dei vitigni autoctoni presenti sul territorio della Regione.
Attraverso il CRA, Istituto sperimentale per la viticoltura, sezione di Turi e Istituto Sperimentale per l’orticoltura, sezione di Pontecagnano, è stato realizzato, negli anni 2005-2007, un progetto interessante finalizzato all’analisi e alla valutazione della situazione sanitaria dei vitigni minori recuperati nelle Regioni meridionali.
Anche la Regione Puglia è presente in questo ambito di intervento. L’Assessorato alle risorse agroalimentari ha avviato di recente un’azione di supporto allo sviluppo dei vitigni autoctoni dando priorità a vitigni storici (Primitivo, Negroamaro, Bombino Bianco, Ottavianello, Uva di Troia, Bianco di Alessano, Pampanuto, Susumaniello, Aleatico, Verdeca) nel quadro degli interventi di ristrutturazione dei vigneti previsti dall’OCM vitivinicolo.
Insito in questa operazione, che non può assumere una dimensione squisitamente commerciale, c’è un pericolo: censire, recuperare, esaltare vitigni autoctoni di cui si è persa traccia da lungo tempo o di cui si riscontra una presenza scarsamente significativa nei territori di pertinenza, con l’inevitabile rischio di slargare a dismisura il quadro delle varietà autoctone.
L’intervento delle Regioni non è certo sufficiente per un’operazione importante qual è quella di recuperare l’identità vitivinicola del territorio. E’ importante che i produttori, avvalendosi della competenza di strutture specializzate, di risorse professionali del settore vitivinicolo, di Università e Centri di ricerca e sperimentazione, ripensino e/o rinsaldino il legame con il territorio. In questo senso è possibile promuovere percorsi mirati di conoscenza e di ricerca dei vitigni autoctoni, della loro dimensione quantitativa e della loro allocazione, dell’evoluzione storica, dei pregi e dei difetti, delle condizioni di allevamento, dell’incidenza di possibili agenti patogeni. Questo serve ad indurre a scelte consapevoli e mirate, risultato di un progetto pensato in risposta ad obiettivi precisi.
Correlato a questa azione di taglio culturale e tecnico-scientifico, vi è il problema della comunicazione. Molto spesso alcune azioni messe in campo sono destinate a non far conseguire i risultati attesi proprio perché non è stato curato questo aspetto. E’ necessaria una comunicazione “funzionale” alla sensibilizzazione del consumatore, per fortuna sempre più attento ed esigente rispetto alla qualità del prodotto, alla sua dimensione storica e territoriale e al profilo dell’Azienda che lo ha elaborato.
Contenuti di tale comunicazione sono senz’altro i vitigni storici e le loro caratteristiche, l’origine e l’evoluzione sul territorio, gli elementi che li identificano come parte integrante e significazione della storia e della geografia di un territorio.
Conclusione
Molto opportunamente Franco Ziliani evidenzia un rischio, e la sua riflessione appare pienamente condivisibile: il rischio che un fenomeno così importante quale la riscoperta e la valorizzazione dei vitigni autoctoni si traduca in una “moda”. Questo tradirebbe l’idea originaria e arrecherebbe grave pregiudizio al processo culturale in atto. Le numerose iniziative - rassegne, saloni, dibattiti, convegni, degustazioni, pubblicazioni - cedendo all’euforia del momento, rischiano di inficiare o di vanificare gli obiettivi reali dell’operazione.
Occorre anche distinguere tra interesse scientifico autentico e condotte operative per cui non avrebbe senso, sostiene ancora Ziliani, ritornare a produrre le numerosissime varietà di uve esistite senza tener conto di altri fattori quali l’epoca di maturazione, la sensibilità verso malattie o patologie della vite, l’incidenza del corredo tannico o acido. (2).
Il dibattito è acceso, le riflessioni sono molteplici, le iniziative si moltiplicano. L’auspicio è che attraverso una sinergia di interventi di carattere pubblico e privato, si produca un reale “vantaggio competitivo” per il mondo vitivinicolo in generale, per i produttori e in definitiva per il territorio che resta protagonista indiscusso di una partita che punta alla qualità.
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(1) LUCA POLLINI, Viaggio attraverso i vitigni autoctoni italiani, Enoteca Italiana, Alsaba edizioni, Siena, 2006
(2) FRANCO ZILIANI, La riscoperta dei vitigni autoctoni, Sito web AIS Lombardia, 14 gennaio 2007
Per approfondimenti
G. MONTALDO, Vitigni minori, l’erosione non si arresta, in Terra e Vita, n. 44/2007
A. LOVISA, Autoctono o tradizionale, lo spirito del Vigneto Italia, in MondoVitis, 2006
[Foto credit: Cantina Pieve Vecchia, su Vinix]
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Inserito da Gianpaolo Paglia
il 07 giugno 2009 alle 11:04-Alloctono vs Autoctono. Va innanzitutto spiegato che non si tratta di una definizione scientifica quando utilizzata nel contesto attuale. Nessuno vitigno e' autoctono in Italia, essendo uno dei maggiori centri di diversificazione della Vitis vinifera identificato intorno al Mar Nero e Georgia. Bisogna quindi utilizzare deifinizioni non scientifiche ed arbitrarie per ridare significato ad un termine scientifico che ha gia' un significato ben preciso (In biologia ed in biogeografia, una specie autoctona (o indigena) di una data regione è una specie che si è originata ed evoluta nel territorio in cui si trova o che vi è immigrata autonomamente da lungo tempo stabilendovi popolazioni che si autosostentano.). Primo problema. Se la definizione allora diventa "culturale", da quando si comincia a contare il numero di anni? Tu nell'incipit parli di parecchi secoli, mentre successivamente scopriamo che per la legge italiana e' autoctono qualcosa che esiste da 50 anni. In biologia evolutiva i secoli sono bruscolini, 50 anni fanno decisamente ridere. Siamo coscienti allora che in molte zone del nostro paese, vitigni come merlot e cabernet sauvignon, sono decisamente autoctoni? Secondo problema.
Perche' quindi continuare ad utilizzare una categoria, quella degli alloctoni/autoctoni, che dimostra di non uniformarsi ai nostri interessi? Vogliamo chiamarli vitigni tradizionali, o, tremo a usare questa parola, tipici?
-Tipicita'. E' una parola stra abusata, e ormai effettivamente svuotata dal significato. Se tipico e' qualcosa che si consumava 30-50-100 anni fa, se si parla di vino allora vuol spesso dire vino pessimo, difettoso, improponibile oggi.
Fatte queste critiche, quello che io mi chiedo e': perche' non approfittare dell'interesse che c'e' e promuovere a livello nazionale o regionale degli studi sulla:
-identificazione e catalogazione dei genotipi di vite presenti in un territorio delimitato
-la loro valutazione mediante attitudine agronomica ed enologica, con test comparabili e scientificamente attendibili a livello internazionale
-fare studi di zonazione per predere coscienza della realta' geo-pedologica, per capire quello che sta sotto i nostri piedi e di conseguenza quali portainnesti e quali cloni e quali varieta' sono adatte.
-miglioramento genetico, selezioni massali, studio delle buone pratiche di coltivazione (biologico, biodinamico) e di vinificazione.
Queste sono a mio avviso le strade vere per l'espressione del territorio, che hanno il pregio (o la colpa?) di abbandonare termini imprecisi come autoctono/alloctono, tipico, tradizionale, e di focalizzarsi sulle evidenze scientifiche ed empiriche (nessuno vuole dimenticare o sottovalutare queste ultime) che abbiamo sotto gli occhi.
Certamente queste hanno la colpa, come dicevo, di risuonare meno "parole d'ordien", meno spendibili dal marketing un tanto e via e dall'amministratore pubblico di turno, spesso beato ignorante che ripete termini a lui sconosciuti a pappagallo, tanto per far presa su un pubblico altrettanto ignorante (perche' non informato) che segue ogni moda che glie viene presentata (barriques/non barriques, autoctono/alloctono, naturale/convenzionale, biologico/biodinamico, vino frutto/vino nervo).
Ci sono i ricercatori in Italia, bravi e numerosi, ci sono le facolta' di agraria, ci sono gli istituti dei ministeri, che potrebbero dare una svolta a tutto il settore se ben coordinati dietro un progetto scientifico VERO. Altrimenti il rischio e', e mi sembra una realta', che anche la ricerca finisca per seguire la moda nella speranza che cone essa arrivino anche i fondi.
La serieta' paga, magari ci mette un po' di piu'. Le parole d'ordine creano moda, e le mode passano.